mercoledì 27 aprile 2011

Nonsocomio - S.O.S

Dinosauri
Non gli era rimasto molto.
Il suo carattere poco incline alla comunicazione, la naturale chiusura, l'introversione ne avevano fatto un animale poco sociale.
Ormai viveva quasi da solo. Non fosse per quelle due volte a settimana quando andava a trovare la moglie all'ospedale.
La sera stava in casa.
L'inverno aveva cominciato a farsi sentire.
Nella stanza al buio, coperto per resistere al freddo e all'umidità, guardava la televisione. L'unica apertura verso un mondo fosse anche il più artificiale e indifferente possibile.
Altro non era concesso.
Di più non poteva o voleva fare.
Anche la voce si era trasformata.
Non più avvezza a sfornare parole articolate in un discorso sensato, quando obbligato a rispondere emergeva tutta la ruggine accumulata. Prima di cominciare a parlare occorreva qualche colpo di tosse per oliare gli ingranaggi, per schiarire quel poco di voce rimasta.
In tanta solitudine a perdere gli era rimasta solo la moglie. Sebbene menomata di una parte di vita. Tra di loro era una gara a chi prima avrebbe restituito tutto.
Eppure nonostante gli innumerevoli acciacchi resistevano ancora. Come due dinosauri reduci da chissà quale cataclisma cosmico abbattutosi all'improvviso. In realtà lì da sempre a minacciare la loro esistenza precaria.
Da un po', quando la salutava all'ospedale, prima di andare via, la baciava in bocca. Con affetto. Lei sulla sedia a rotelle, lui chino verso di lei.
Da tempo non succedeva.
Forse non era mai accaduto.
Eppure a fronte di tanta mancanza anche il quasi niente assumeva un valore assoluto. Lasciate da parte le normali incomprensioni, le idiosincrasie basilari, quel rapporto si era colorato di un qualcosa di nuovo. Anche perché perso quello non ci sarebbe stato più nulla, più nessuno. A un passo da essere l'ultimo sopravvissuto di un'umanità in via di estinzione. Prossima a salutare per sempre questa terra nel silenzio più profondo. Senza aver lasciato alcuna traccia significativa.


Questo l'epilogo...
Ora un passo indietro...
All'inizio di tutto...
Sei mesi prima...


Apocalypse now
L'apocalisse si è abbattuta.
Il giorno, l'11 aprile 2011.
La luna è crescente.
Ha già mostrato il primo quarto.
Nel giro di una settimana la mamma è caduta dallo scalone rompendosi una vertebra. Immobilizzata a letto, ha bisogno di tutto. La zia da tempo malata di cancro è stata ricoverata all'ospedale. La causa, una fistola tra intestino e utero. L'effetto, espelle feci dalla parte sbagliata come non dovrebbe, secondo lo stupito reportage della mamma al telefono.
Ah... un altro dettaglio.
L'11 aprile era anche la data di compleanno di mia sorella, morta d'incidente d'auto una quindicina d'anni fa.
In più oggi sono stato pubblicato per la prima volta su una rivista di poesia. “Tratti” il nome... “Vissuti da una provincia dell'impero” il sottotitolo.
Nessuno ha avuto il tempo di farci caso. Nemmeno il sottoscritto. Altre le questioni da affrontare. Il crollo del proprio mondo, la necessità di ricomporne un altro significativo.
Non sarà facile...
Deportato in una piccola cittadina di provincia da Bologna, lontano dagli affetti, dagli amici. Anni e anni di paziente lavoro per intessere relazioni sociali per trasformare un ambiente sconosciuto in un luogo accogliente, caloroso. Strapiantato da tutto mi trovo ancora scaraventato in mezzo al deserto.
Un ultimo dato... Quest'anno la Pasqua coincide con il giorno del mio compleanno. Ci sarà ancora una resurrezione dopo l'ennesima passione?
Alle nove e trenta di sera, appena uscito dall'ospedale, vado in cerca di esseri umani.
Le vie sono vuote.
Tutto è silenzioso.
È aperto solo il Tartaruga, un bar posto vicino la piazza principale del paese. Anche lì non c'è nessuno se non un manipolo di disperati.
Dove cazzo sono tutti.
Come si ammazza il tempo qua in periferia, lontano dall'impero?
Avvisaglie di quanto si stava per abbattere c'erano già state la sera prima. Quasi un destino.
All'Xm c'era la festa di Alessio, un bambino di dodici anni. Per l'occasione era stata allestita una festa di compleanno con tanto di dj, di spettacolo circense compresa l'esibizione di tessuto.
A organizzare tutto c'era la Fiore. Una mamma di due figli fans di Ozzy Osburne, nonché chitarrista rock sempre pronta a pistolare sui volumi del mixer durante il sound check dei gruppi musicali.
Tutto era filato liscio, almeno fin quando i cani di Fiore non si sono azzuffati con un Dobermann. Nel tentativo di dividerli si è presa un grosso morso sul braccio. Fosse toccato al suo cane non so se avrebbe resistito, ma la Fiore è grossa e tosta. Con una camera d'aria nera al braccio come laccio emostatico stava seduta sul pavimento del bagno. Imprecava e sbatteva forte il piede contro la parete appena verniciata.
Abbandonata da tutti l'abbiamo portata noi della ciclo al pronto soccorso.
In preda al delirio biascicava parole poco riconoscibili. Per la stanchezza, lo stress patito, alla fine era crollata sulla sedia a rotelle a corpo morto. Implosa su sé stessa come se qualcuno le avesse tolto di botto la colonna vertebrale.
Tutto ciò si era protratto fino alle tre di notte quando dopo i medicamenti del caso si era tornati al campo base. L'Xm.
Nemmeno un attimo di pausa. Appeno sveglio la telefonata della mamma. Via ancora con la macchina per la nuova destinazione con l'acceleratore frenato per rallentare il più possibile l'apocalisse oramai attivata. Da un pronto soccorso all'altro. Dalla Fiore alla zia delirante morsa a sua volta sul collo non da un cane ma dalla morte in persona. Dal caos creativo della ciclofficina all'abisso senza ritorno della zia portata di fretta all'ospedale.
L'effetto è lo stesso dell'esplosione di una bomba atomica. Come certe immagini di Hiroshima prima e dopo. Da città dinamica in movimento a una distesa informe di rovine irriconoscibili. Tutto spazzato via dal falling down mortale della vita. In un sol colpo.
Rimane solo da resistere per i sopravvissuti o lasciarsi andare alla malora. Senza compromessi possibili o vie di fuga.
Intanto valuto i danni, soprattutto le conseguenze dopo lo scontro frontale con una meteora impazzita capace di stravolgere la mia pacifica traiettoria.
Una catastrofe sotto sotto attesa da tempo.
Vanno riscritte le mappe, ricalcolata la direzione, impostate nuove tabelle di marcia, prese le razioni per sopravvivere a tale inferno. Per questo mi sono dotato di un borsone pieno di libri, a cominciare da “Se questo è un uomo” di Primo Levi. L'intento è di costruire un'armatura per difendersi dai colpi della vita. In fondo non è tanto differente. Cambiano i luoghi, comunque bisogna proteggersi da un carnefice invisibile. Al massimo si vedono le conseguenze, a cose fatte.
Nel frattempo aspettando il peggio ci si ingegna nelle occupazioni quotidiane. Cucinare, lavarsi, vestirsi, intessere relazioni sociali, distrarsi un attimo. Per qualche istante ci si illude di avere a disposizione uno straccio di soluzione. Altre volte si spera di essere salvati da chi sa quale improbabile liberatore. Nei momenti più cupi si bestemmia. Un modo fra tanti per parlare con i fantasmi. Vestigia residuali di pensieri arcaici buoni all'occorrenza per tappare d'aria la falla spalancata.
Secondo Ana Luisa una possibile soluzione sembra l'abbiano trovata in Brasile. La sua terra d'origine. Birra, carnevali e soprattutto sballo a volontà per non pensare a niente. Tanto quando arriva arriva.
Potrebbe essere una buona strategia.
Questi brasiliani...
Intanto risuonano le parole dell'untore Nilo.
Pagherete caro, pagherete tutto!
Già, forse senza immaginare quanto!
Comunque vale rendere ogni cosa il prima possibile senza sconti o residui.


Eleonora Ferri
Ieri notte è svenuta in casa.
Oggi è ricoverata al reparto locale di medicina d'urgenza in attesa di una visita.
Vorrebbe accelerare i tempi ma non ha questo potere.
Non la pensa allo stesso modo il suo datore di lavoro venuto nel frattempo a trovarla. Un signore viscido nonostante l'aspetto da piccolo imprenditore curato.
Parla parla in continuazione, noncurante dei problemi, delle sofferenze dei presenti.
Il corpo di Elisa è magro, un po' anoressico per assecondare i canoni estetici del suo ambiente.
Tra i due c'è qualcosa di più di un semplice rapporto di lavoro. Sembra facciano parte di una congrega religiosa votata al dio denaro, alla funzionalità. Ogni gesto deve essere finalizzato per ottimizzare il rendimento e incrementare i guadagni del gruppo. Per questo bisogna essere dotati di efficaci conoscenze psicologiche al fine di stabilire gerarchie, rapporti di potere.
Appena arrivato, dopo aver ascoltato le rimostranze della dipendente-compagna, capisce il problema.
Qui ci vuole potere!
Estrae il cellulare.
Telefona a chi sa lui per oliare gli ingranaggi giusti del meccanismo all'apparenza inceppatosi.
Senti perché non fai uno squillo al Dottor Battiferro e chiedi come sta Eleonora? Mi raccomando presentala come una collega senza dire nulla di più. Non c'è n'è bisogno, capirà.
Tanto si sa bene come vanno queste cose. Basta un cenno per farsi intendere, per attivare comportamenti utili.
Ah... la potenza della tecnologia!
Mi raccomando... Una volta uscita non scordarti di mandargli quattro “baci” perugina...
Eh si. Secondo le regole del dono-contro-dono. Dello scambio e del plusvalore. Quello aggiunto alla normale prestazione. La stessa spettante alla zia in attesa da più di quindici ore di un posto letto in chirurgia.
Dopo un profluvio di parole inutili appiccicose come una chiazza di petrolio in mare, decide di andarsene. Non prima di invocare un segno d'affetto.
Si avvicina al letto poi con la voce da topogigio le dice:
Mi vuoi bene?
Lei neanche lo guarda.
Si percepisce tutto il disprezzo.
Eppure manda giù il rospo.
Alla fine gli sussurra il fatidico si.
Poi dopo un leggero movimento lo bacia alla guancia.
Appena si toccano il suo corpo rimbalza come una molla allontanandosi. Di più non riuscirebbe a sopportare.
Il tempo indispensabile per depurare l'aria dalle scorie residuali di quei dialoghi, arriva una dottoressa per visitarla.
Non è la solita prestazione.
Si protrae per un tempo lunghissimo.
A quanto pare la telefonata ha ottenuto il suo scopo.
Il prezzo, un bacio pesante come quello di Giuda.
Ancora visibili i segni sul corpo, delle cicatrici indelebili difficilmente riassorbibili.
Quando viene dimessa non ci si saluta.
L'uno indifferente all'altra.
Fanculo!


Leoncello
Luca è il personaggio più malinconico conosciuto giù nel borgo selvaggio.
Ha studiato tre anni a Bologna a filosofia.
Poi ha deciso di tornare a casa.
Troppa la confusione della città.
Difficile resisterle se non si è dotati degli anticorpi giusti.
Meglio la vita di campagna insieme a un manipolo di emarginati come lui.
L'intento provare a sperimentare nuove strade percorribili.
Sono ripartiti dalla tradizione radicata fin nel profondo della fertile terra locale per rinnovare quelle radici comuni, per farle germogliare ancora contaminandole con le novità della sua generazione. Un passo indietro per un ulteriore lancio in avanti. Tra conservazione e innovazione.
Forse si tratta solo di riuscire a sopravvivere ai margini facendo dell'essere precario una scelta. L'unica possibile per non essere risucchiati nella trappola famiglia-lavoro-figli. Il fatidico triangolo delle Bermude alla base dell'economia locale.
Insieme a altri sette amici, compreso Michele, un filosofo antropologo, hanno affittato un casolare in piena campagna. Non senza idiosincrasie almeno per chi come Michele si sente un cacciatore raccoglitore e non un semplice agricoltore sedentario.
Inquieto per natura, sempre sull'orlo dell'abisso nonostante l'aspetto rilassato e pacifico, Luca ha i segni della morte addosso. Il suo sguardo rassegnato è sopravvissuto a un nichilismo suicida capace di erodere ogni cosa attorno.
Questo disagio lo rende di un'umanità impareggiabile. Fragilissimo, però di un'umiltà smisurata. Pronto a accogliere lo sbandato di turno. Il sottoscritto nella fattispecie.
Lui e i suoi amici sono gli unici a popolare le vie del centro.
Così deserte sembrano rispettare i canoni metafisici di un De Chirico o di un Morandi. Di una glacialità disarmante nonostante il colore caldo delle luci dei lampioni studiatissimo.
Alla fine tutto risulta finto come a teatro.
Forse dietro quelle scenografie da cinema d'autore si cela un vuoto, un'assenza ancora più cupa per qualcuno aggirabile provando a fuggire più lontano possibile grazie alla rete, alla televisione satellitare. Fino al punto di alienarsi da questo livello.
La realtà cazzo!
È così schifosa e insopportabile al punto da volerla rinnegare del tutto?
Forse sì.
Comunque non ce ne libereremo così facilmente, tanto vale affrontarla di petto.
Con le loro abitudini, gli abitanti fantasma assomigliano a degli zombie ante litteram. Solo si svegliano con la luce del sole e vivono di giorno. Per lavorare, accudire la prole, girare per negozi fashion. Anche questi degli stratagemmi per evitare quel vuoto annichilente. Sul tramonto rientrano nelle bare, si tumulano vivi. Aspettano il giorno dopo. Quando si ricomincia da capo lo stesso identico ciclo. Come fosse tutto normale... Facendo finta che tutto va beh...
Volontariamente alleggeriti di ogni coscienza vivono come automi. L'unico modo possibile per sentirsi liberi dal peso della vita, da ogni responsabilità. Per illudersi di continuare a tirare a campare bene. Sempre con un sorriso di plastica stampato in viso, lo sguardo sfocato, cantilenando parole addomesticate come se quelle voci fossero registrate e venissero da chissà quale pianeta lontano.
Luca e i suoi amici hanno provato a ribellarsi barricandosi come nei film sugli zombie. Armati di cordialità, affetto vogliono farli uscire allo scoperto, rompere l'accerchiamento silenzioso. Forse in questo modo riusciranno a sciogliere i loro cuori pietrificati.
Nonostante la buona volontà, alla fine anche loro mostrano i segni della battaglia. Prigionieri nelle loro trincee sono costretti a percorrere sempre gli stessi percorsi avanti e indietro all'infinito. Ripetendo i medesimi gesti, le solite parole vuote per riempire l'aria satura di niente. Impossibile non diventare meccanici, asettici. Un destino irresistibile malgrado il tentativo di ribellarsi, di non darsi per vinti.
Li incontro al tartaruga verso l'orario aperitivo con in mano l'abituale vino della casa, della birra.
Quando la noia arriva a un punto di non ritorno si prova a cambiare. Spinti a valle dalla corrente ci si lascia trascinare verso un altro porto come fossero anche loro sul fiume Nung a caccia di Kurtz. Soltanto di Kurtz non è rimasto più nulla se non le vestigia smembrate e disperse in ogni anfratto. Così non si sa più bene cosa cercare, perciò si segue il flusso senza direzione, dove capita. A caccia di fantasmi.
Alla fine attracchiamo al Leoncello, un circolo a.r.c.i.
Qui tutto si contamina. La scena alternativa con il mondo degli ultras. Anche questa una via più viscerale per manifestare il disagio.
Il locale sembra ricalcare l'immaginario di tanti bar country di periferia di certo cinema americano. Quei bar con le luci soffuse, i colori caldi, frequentati dalle solite persone silenziose a bere birre con il sottofondo di una musica nostalgica. Non la consueta scaletta country, ma una più versatile playlist al computer.
Così famosi pezzi rock degli anni settanta si alternano a qualche hit dance degli ottanta.
Poche le cartucce in canna.
Dopo una raffica di brani sparati uno dietro l'altro si ricomincia da capo con le stesse munizioni.
Una due tre volte.
Come se il tempo si fosse incantato e il disco girasse a vuoto. Un loop infinito copia carbone della ciclicità quotidiana del luogo. La forma impressa in ogni oggetto, in ogni momento come un marchio di fabbrica indelebile.
Una delle note positive sono i prezzi bassissimi ben al di sotto degli standard comuni. Forse una strategia per invogliare i clienti a stare lì.
Al limite sarebbero disposti a pagarti pur di vedere riempito quel luogo desolato.
Tanto qua il denaro non serve a niente.
Un oggetto senza valore.
Puoi essere ricco, povero, la macina gira sempre nella stessa direzione secondo un destino comune.
Dopo un paio di birre, delle chiacchiere immemorabili, alla fine crollo per la stanchezza. Troppo dura la giornata, poco efficaci gli antidoti.
Vengo riportato a casa.
Svogliatamente prendo posto dentro il sarcofago assegnatami dal fato. Poi, dopo aver chiuso il coperchio mi addormento.
Finalmente un po' di pace.
Non durerà a lungo. Il tempo di ricominciare tutto da capo l'indomani con i propri incubi sospesi nello stesso punto dove li si era lasciati la sera prima, impazienti di manifestare silenziosamente la loro inquietante presenza.
L'apocalisse non si è compiuta ancora del tutto.
Si sta ancora nella zona di passaggio, la terra di nessuno.
Feriti mortalmente non si smette di segnare il terreno di rosso contaminandolo di vita.
Quando finirà?


Verso la ciclofficina
Sto salendo a Bologna per non lasciarmi risucchiare dal vortice mortifero della provincia.
Non so se sia positivo.
Sarebbe tutto più semplice affondare lentamente acconsentendo.
Ma non è nella mia natura.
Preferisco rimescolare le carte, giocarmela sul piano simbolico.
Dopo un pomeriggio intero con la zia intenta a titillarsi per alleviare il dolore, scendo in portineria per conoscere gli orari dei treni. Destinazione Xm, o meglio... la ciclofficina.
Sebbene destrutturato dai cattivi pensieri mattutini riesco a formulare un piano da paura conciliando tutte le variabili possibili. Il tempo, il costo, le distanze.
Per evitare l'impasse delle coincidenze, parto in auto.
Destinazione Senigallia, la stazione vicina più a nord lungo la linea adriatica.
Lì cambio la macchina con il treno, un intercity. Un mezzo del tutto inusuale volutamente evitato finora.
Ma oggi le solite regole non valgono.
Sono richiesti altri valori, scelte più radicali.
Certo potrei prendere il regionale veloce (hi hi).
Però così guadagno un'ora.
Ne vale la pena.
Al ritorno mi affiderò alla tradizione. Incrociando le dita, viste le vicissitudini passate.
Arrivato a Senigallia rivedo la simpatica bigliettaia conosciuta l'inverno prima durante la nevicata polare.
Là nei paraggi c'è anche Luca, un tassista dj.
Lo saluto. Poi mi fermo per qualche chiacchera.
Da allora siamo diventati amici. Ora è un punto di riferimento.
Ma l'incontro più sorprendente è con un ragazzo somalo molto alto.
Mi vede dal giornalaio.
Con entusiasmo mi saluta chiamandomi per nome.
Non ho la più pallida idea chi sia, né dove ci siamo conosciuti. Per un attimo penso sia un emissario di Dio mandato a posta per consolare il mio umore nero. Ma cavolo non siamo mica in un film.
Lo assecondo.
È venuto a Senigallia per un corso di barman.
Vuole tornare a casa ma sta sul binario sbagliato.
Provo a indirizzarlo.
Alla fine siamo guidati sulla retta via dalla simpatica bigliettaia sempre attenta a accudire la mandria sbandata dei viaggiatori.
Ci salutiamo con affetto io diretto a nord, lui a sud.
Forse ci si incontrerà ancora, questa la speranza dichiarata.
Arriva il treno.
È in ritardo.
Non abbastanza per vanificare il mio piano.
Fuck.
Salgo.
Mi metto a caccia di un posto appetibile.
Qualcosa però non torna, una signora davanti a me cerca un numero sul biglietto.
Avrà prenotato...
Continuo la ricerca senza grossi risultati.
Torno pure sui miei passi.
Alla fine individuo un posto davanti a una ragazza bellissima. Parla inglese e io sono già fuori con il mio francese traballante.
Prima di sedermi mi viene un dubbio, poi un'illuminazione.
Ho il posto prenotato!
Verifico sul biglietto.
Carrozza 003, posto 023. Un numero sotto a quello della zia in ospedale.
Chiedo a un signore a piedi il numero della carrozza.
003.
È quello giusto.
Dopo aver gettato un'occhiata veloce sul biglietto mi indica la poltrona, la stessa selezionata poco prima.
Rimango incredulo e stupito. Non era facile.
Si si... va bene... La solita coincidenza... Però...
Mi seggo.
L'imbottitura produce sul mio culo gli stessi problemi patiti sui treni regionali, solo è un po' meno fastidiosa. Sarà per la differenza di prezzo... non ancora in grado di tradursi in un servizio positivo. Comunque si notano alcuni cambiamenti rispetto gli abituali canoni dei RV. Ci sono meno studenti, “extracomunitari”. Abbondano invece persone un pelo più raffinate non per questo meno grezze. Maneggiano solo oggetti più costosi, gli occhiali da sole, mp3 touchscreen, cellulari ciclamino.
La differenza più clamorosa sono però i numerosissimi stranieri extracomunitari senza virgolette. Ben vestiti, con computer di ultima generazione, arrivati in jet magari in prima classe.
Alla fine il più anomalo sono proprio io.
Sarà la novità, ma mi sento come un bambino alle prime armi. Parlo con il vicino, la vicina, provo a fare battute. Con qualcuno ha successo... Quelli mossi da un naturale istinto materno. Non tutti riescono a sintonizzarsi su quella lunghezza d'onda. A prevalere è piuttosto un certo rigore, tanta tanta serietà spesso condita con un linguaggio formale inutilmente ricercato magari solo per dire: Ei mi fai passare.
I due orientali davanti a me invece sono ipnotizzati dal computer. Fissano lo schermo impassibili. Ogni muscolo del viso è al proprio posto. Certamente stanno vedendo qualcosa di serissimo. Forse un horror o semplicemente una banale presentazione in power point di qualche componente elettronico. Che so un chip di ultima generazione piccolo come la punta di uno spillo in grado di svolgere mille funzioni differenti. Accendere a distanza il computer, la tv, la macchina del caffè, meglio... la teiera.
Nel frattempo il treno frena bruscamente.
La bottiglia d'acqua quasi vuota sul tavolo scivola verso il loro computer.
La blocco appena in tempo.
La rimetto a posto.
Riscivola inerzialmente.
La riposiziono ancora...
Sembra una trovata comica, ma non abboccano.
Il loro volti non fanno una grinza.
Sono imperturbabili come certe statue di Budda.
Solo non sorridono.
No... non è vero...
Dopo un po' qualcosa si muove...
Eureka!
Quello davanti a me mostra una leggerissima curvatura delle labbra, poi un rilassamento del muscolo guanciale.
Prova a frenare l'impulso.
Non vi riesce.
Alla fine si lascia andare.
Senza esagerazioni però!
Un sorriso appena accennato si stampa sul volto per una frazione di secondo. Poi riacquista fulmineo la stessa identica espressione di prima. Come se i muscoli avessero ingranato la retromarcia.
Cosa avrà scatenato tale evento, quale immagine o gag.
A ben guardare sul coperchio del laptop si vedono appiccicati degli adesivi infantili, un formaggio sorridente con le gambe, una stella... Forse sono i personaggi di qualche fumetto o di una pubblicità.
No niente di serio, stanno vedendo un cartoon per di più comico.
Geniali.


Nuova vita alla nuova carne
Sono bastati pochi istanti per bruciare tutte le energie accumulate in una serata straordinaria alla ciclofficina di Bologna. Un'ora e mezzo di urla della zia in pieno fermento trasformativo.
La natura ha deciso di sperimentare altre strade.
La zia la cavia prescelta.
Il suo corpo sempre più anarchico rifiuta di seguire le direttive di un tempo, i flussi pianificati fin dai primi giorni di vita.
In un certo senso ora è più libero, creativo. Proiettato verso un'ulteriore fase magari prevista da sempre. Solo si fa fatica ad accettarla, a capirne il senso.
Arrivati a questo punto non ci si arrovella a pensare ai perché o a cercare i responsabili. Si vorrebbe solo uscirne prima possibile, in qualsiasi modo.
In fondo lo stesso male morale, quello imputabile all'uomo, è da sempre un diversivo per nascondere, giustificare il lavoro sporco della natura. Cosa cambia se a dirigere le operazioni è la mente contorta di un Eichmann o un programma assurdo scritto nei propri geni? L'effetto è comunque lo stesso. Anche se in quest'ultimo caso per il carnefice è più facile nascondersi, scomparire dalla visuale.
Ma poi ci è così di sollievo sapere se si tratti di auto o etero tortura, conoscere l'origine di tale follia pronta a esplodere in mille forme originali di distruzione, che so, magari attraverso la pianificazione razionale di un uomo industrioso abile a automatizzare lo sterminio?
La stessa attribuzione di colpa è solo un alibi per individuare un responsabile riconoscibile, al massimo punibile. Altrimenti difficilmente identificabile dietro parole vuote come “vita”, “natura”, imprendibili quanto la parola “dio”, utilizzate proprio per coprire, ridurre, contenere queste oscure dinamiche.
L'apocalisse è inscritta nei nostri corpi. Come si andasse in giro con un timer sempre attivato senza conoscere la durata. Una tortura spesso insopportabile per il martire di turno.
Vale molto più non pensarci per abbandonarsi alla capacità illusoria della propria immaginazione sempre pronta a inventare mondi nuovi, prospettive simboliche cariche di promesse puntualmente disattese.
Forse il trucco sta proprio in questo. Nel riuscire a traviare, mettere in croce la personale verità.
Troppo il fardello da sopportare.
Meglio annacquarlo, affogarlo, disperderlo, sterminarlo in mille pratiche senza senso. Se non quello di tenerci occupati. Un modo fra i tanti per illuderci di sentirci ancora vivi.
Non serve comunque a niente.
Sotto sotto si sa.
Però visto come vanno le cose il gioca sembra valerne la candela.
A vincere sono le nostre capacità d'inganno.
Così si continua a progettare lager a cielo aperto spacciati per mondi paradisiaci. In numero illimitato quanto la nostra capacità di illudersi, di progettare, creare.
A ben pensarci non siamo poi tanto differenti da quei topi da laboratorio occupati a trovare la strada per premere coattivamente la levetta con lo scopo di raggiungere il meritato premio, la sopravvivenza. Per essere prima o poi vivisezionati o infilzati con elettrodi nel cervello.


Non lasciarmi
Prima di partire da Bologna mi sono concesso un ultimo film. Non lasciarmi, del regista Mark Romaneck. Tratto dall'omonimo romanzo di Kazuo Ishiguro.
Con il senno di poi il film si è rivelato lo specchio più veritiero di quanto stavo per andare a vivere.
La storia.
Un gruppo di cloni di prima generazione, progettati per “donare” organi, sono allevati con “umanità”. Per questo vengono iniziati all'arte, ai buoni sentimenti, alla cura e alla disciplina del corpo.
Unica limitazione è il vivere relegati in un college lager.
Una volta cresciuti, vengono parcheggiati in case coloniche vicino ai centri abitati in attesa di adempiere il loro compito. Donare organi secondo necessità.
Nel frattempo hanno modo di confrontarsi più da vicino con il mondo reale, con gli esseri umani naturali.
Alcuni provano a indovinare di chi sono cloni cercando per strada il sosia.
Tutti sanno a quale destino sono chiamati al punto di essere impiegati come sostegno morale per i loro simili dopo i trapianti.
Di più non possono né sanno fare. Se non accompagnare a morte e confortare mano nella mano il bisognoso di turno.
C'è chi pensa di poter interrompere tale programma dimostrando di essere simili agli umani. Per esempio esibendo delle particolari prestazioni creative, oppure amandosi intensamente. In questo modo sperano di salvarsi, di essere graziati. Ancor più si illudono di entrare a far parte a tutti gli effetti del mondo umano.
Dopo aver cercato e trovato i loro antichi maestri del college, confessano le loro pie speranze solo per scoprire una realtà ben differente. Di essere stati nonostante tutto dei “privilegiati”. Almeno rispetto alle ultime generazioni di cloni cresciuti senza remore come polli d'allevamento.
Sconsolati se ne tornano indietro.
Lungo il percorso non riescono a trattenere il loro disappunto urlandolo disperatamente. Poi subito dopo aver scaricato la tensione tornano silenziosamente in macchina diretti verso le loro tragiche destinazioni per aspettare il proprio turno.
Nessuno si ribella.
Tutti vivono il proprio destino con una calma disarmante nonostante lo sterminio quotidiano dei loro amici.
Al massimo riescono a esprimere il disagio a parole, oppure attraverso la creazione artistica.
Quando arriva la chiamata tutti rispondono con un fiat pacato, remissivo, come se riuscissero a realizzarsi veramente solo in questo modo.
Basterebbe poco per ribellarsi.
Nessuno di loro è recluso o obbligato a fare qualcosa contro la propria volontà.
Certo si tratterebbe di convertire una morte artificiale in naturale. Cioè una morte funzionale in una insensata.
Nessuno compie tale passo.
Come tanti personaggi beckettiani allucinati non riescono a trovare il bandolo della matassa per attivare comportamenti trasgressivi capaci di modificare il loro destino già scritto.
Mossi da un anelito indefinito di evasione, si concedono solo un tono melanconico decadente senza riuscire mai a imbroccare una strada efficace.
Ma esiste poi veramente questa possibilità salvifica?
Forse hanno ragione loro. Tanto vale abbandonarsi al destino con una serenità imperturbabile, sempre esibendo il sorriso sulle labbra, affondando pian piano all'interno di una quotidianità stritolante espressa puntualmente dalla lentezza del film senza dubbio commisurata alla sospensione illimitata dei nostri protagonisti.
Siamo agli antipodi rispetto ai replicanti di Neuramante, alias Blade Runner. Battaglieri e ribelli al punto di vendicarsi del loro creatore demiurgico, uccidendolo.
Questi ultimi cloni dello schermo, nella loro rassegnazione nichilistica, sono forse più umani, più veritieri dei loro predecessori. Ben più simili a noi, al nostro destino scritto, alle nostre idiosincrasie, debolezze, illusioni. Compresa la capacità di barare all'infinito con se stessi.

… --

New Orleans
Otto e un quarto.
L'ora dell'aperitivo è agli sgoccioli.
La gente corre in casa di corsa per barricarsi fino all'alba successiva.
Pian piano la città si svuota.
Resta solo un manipolo di resistenti.
Non ci stanno a scomparire tacitamente per far posto al vuoto. Vogliono invece riempire quegli spazi con le loro voci, la loro presenza, anche per testimoniare l'esistenza di qualcosa di vivo.
Non è facile.
Dopo anni di isolamento forzato perseverano ancora.
Non del tutto vinti rifiutano di accettare le tristi consuetudini locali.
Basta...
Oggi si cena fuori.
Senza programmi prefissati, abbandonati per l'ennesima volta a una provvidenza residuale sempre più impalpabile, all'ispirazione del momento, così come viene. Facendo emergere situazioni nuove con quanto disponibile. Alla fine qualcosa succederà.
I fuorisede portano un tocco esotico giusto per variare un po'.
Questa sera niente pizzeria.
Si condividono carote, insalata, formaggio locale. Tutto già preparato in casa, da mangiare dove capita.
Le birre le si prende dal bangla...
In un attimo si è già sui gradini del Tarta per un bivacco occasionale.
Oramai si è rimasti solo un manipolo, il resto di tutto. La consueta armata brancaleone questa sera però più frizzante del solito.
Sarà la luna piena, oppure il pecorino, ma le battute si rincorrono, gli sguardi sono vispi, sui volti traspare un sorriso infantile.
La città è a nostra disposizione, tutta per noi. Nonostante la sensazione di stare all'interno di una di quelle cattedrali di ghiaccio freddissime e disumane.
Ma che ce frega.
Siamo qua per tentare di scioglierla con le nostre freddure.
Dopo esserci rifocillati si decide di incamminarci per il New Orleans, un porto franco scoperto di recente dove tira aria brasiliana contaminata da atmosfere caraibiche. Non senza aver prima assaporato l'abisso.
Appena si entra si rimane colpiti dalle tante immagini del Ché. Foto di repertorio, ritagli di giornali, persino uno stendardo con un suo volto barbuto.
In bella evidenza un “Hasta la vittoria siempre!”
Il tutto trasuderebbe di semplice nostalgia se accanto a tale icona rivoluzionaria non si mescolassero pure gli striscioni della squadra di calcio locale. Che il Ché fosse un leoncello?
Ogni cosa si contamina, la rivoluzione civile, l'ardore di tante battaglie sugli spalti.
In entrambi i casi si tratta di lottare per una fede. Qualunque essa sia, a qualunque costo. Mossi dallo stesso spirito inquieto.
Due modi di essere devianti in fondo neanche troppo distanti.
Una volta metabolizzate queste immagini forti, il locale si mostra per tutta la sua semplicità. Poche sedie, qualche tavolo, la luce accesa solo sul bancone. Tanto non c'è nessuno, meglio risparmiare.
Il locale è posto di fianco a una delle porte storiche del paese. Con i suoi archi antichi ricorda una vecchia taverna del seicento simile a quelle immortalate dal Caravaggio. Tale paragone è doveroso vista la poca luce radente in lotta con il buio della sala. A stento si riesce a definire qualche oggetto sospeso sulle pareti. I tavoli, le sedie emergono dal fondo nero come galleggiassero in una chiazza di petrolio.
L'uomo del bar è un personaggio tragico-ironico. Ha pure un figlio in carrozzella spesso presente in sala. Come sia riesce a trasmettere un'umanità sorprendente. La stessa di chi si è confrontato duramente con il destino, dopo gli schiaffi della vita.
Ha sempre la battuta pronta.
Nonostante il sorriso, dai suoi occhi lucidi fa capolino tutta la sua inconsolabile tristezza.
Dopo tante battaglie ha provato a cercare sollievo in Brasile. Non certo nei grossi centri abitati inseriti nei normali circuiti turistici ma in mezzo ai villaggi di pescatori. Tra la gente semplice come lui generosa al punto di darti tutto. L'ospite lì è ancora sacro, rispettato, chiunque esso sia.
A testimonianza dei suoi viaggi una collezione di Cachaça compresa la mitica 51.
Visto il clima gioviale alla fine tira fuori i cimeli. Oggetti poveri carichi di ricordi testimonianza dell'arte di arrangiarsi del popolo brasiliano. Uno spremi lime, un taglia verdure.
A colpire più di tutti è un apri bottiglie di legno con una vite a mo' di cavatappi. Geniale e irripetibile. Figlio dello spirito creativo di gente semplice abituata a non buttare nulla.
La sera volge al termine.
Salutiamo con affetto l'oste per tornare alla base, il Tartaruga. Non prima di attraversare la piazza centrale vuota come le piazze di De Chirico, sospese, senza tempo. Vuoi per la luce, per l'aria tersa capace di donare alle superfici un aspetto iperreale.
Per un attimo ci prestiamo alla piazza come manichini in posa al centro.
Ora l'opera è perfetta.
Un vero capolavoro.
È giunto il momento di togliere il disturbo, di scomparire da questi luoghi ameni poco avvezzi all'uomo. Almeno fino alle luci dell'alba.
Lasciamo le mura della piazza fredde come quelle di una prigione a cielo aperto. Tutto sotto lo sguardo vigile della luna piena splendente come un faro puntato nella notte.
Potranno continuare a godere del sinistro spettacolo solo i gatti randagi ancora svegli.
Buonanotte a tutti!


It's a miracle
Hanno sbagliato l'intervento.
Una “banale” operazione si è tramutata in una roulette russa.
Il rischio... la paralisi, delle disfunzioni vescicali.
Per rimediare è stato pure interpellato un famoso neurologo pesarese.
La mamma ha passato tutto il giorno a urlare disperata nonostante gli antidolorifici somministrati come acqua.
Seduto accanto al letto ho immaginato l'impossibile.
Un miracolo.
Per agire sulla materia come fosse viva, fluida, plasmabile, trasformabile.
In silenzio ho pure cantato in lingue.
Niente.
Il tempo irreversibile come una freccia, la materia retta dalle leggi causali hanno vinto ancora.
Solo poche ore e si entra in clima pasquale in attesa della resurrezione.
Tra poco sarà anche il mio compleanno.
L'indomani ancora S. Marco.
L'homo faber ha fallito.
Lo stesso l'homo miticus, religiosus.
Cosa rimane ancora oltre lo scomparire prima possibile?

… --- …
… --


Doppietta
Pasqua e compleanno cavolo!
Sono bastati una manciata di giorni per spazzare via le poche certezze alle quali mi aggrappavo faticosamente.
Ora mi trovo in una stanza con una signora a fianco della mamma intenta a russare senza ritegno. La stessa incurante di mostrare le proprie chiappe nude seduta sul letto mentre sorrideva beatamente.
Eh già...
L'ospedale ha un altro regime. Uno stato particolare dove si viene spogliati della propria “umanità”.
Dopo aver mangiato la pasta in bianco cucinata dal babbo, due carote, un pezzo d'uovo di cioccolata e per finire due caramelle di liquirizia purissima per assecondare lo stomaco acido, mi incammino a piedi.
Passo prima a trovare la paziente numero cinque, situata al terzo piano a ortopedia.
Lì sta il corpo immobile della mamma.
Al suo fianco c'è l'ammalata numero sei la signora dalla russata facile.
Sto un po' lì a fare niente.
A contare è solo la presenza, l'essere visti, l'illudere l'altro di non essere ancora quel resto di umanità abbandonata a se stessa fatta scomparire silenziosamente in quanto inaccettabile. Almeno secondo quell'ideale illusorio diffuso di vita felice preconfezionata. Meglio circoscriverli ai margini pur di evitare il peggio. Potendo li si sterminerebbe senza remore. Tutti ne gioverebbero.
Dal piano tre della palazzina dipinta di bianco di ortopedia scendo al primo piano, a chirurgia generale.
Sotto le coperte trovo la paziente numero nove, la zia.
Oggi le hanno tolto i filamenti alle braccia tumefatte per le iniezioni. Un nuovo livello di libertà apparente acquisita, al limite condizionata.
La bestia vicino alla mamma si gode il meritato riposo dopo essersi saziata con la personale razione quotidiana.
A portare la Pasqua in queste stanze appartate una piccola colomba monodose da mangiare come ostia.
Basterà per spiccare il volo?
Ma va là...
Nel migliore dei casi ti può far spostare in un'altra baracca con il numero civico personale.
Certo lì c'è un po' più di spazio, di libertà.
Ti puoi alzare, andare a far spesa, relazionarti con i vicini.
Soprattutto puoi guardare la tv, collegarti con il mondo intero senza essere obbligato direttamente da nessuno.
Molto di più non è concesso in questo lager a cielo aperto.
Fuggire oltre non è possibile, né pensabile.
Al massimo si può provare a inventare dei modi per immaginarsi diversi, un po' più umani, sinceri, gentili, senza dover dimostrare nulla a nessuno. Tanto non servirebbe a niente. Piuttosto lo si fa per sé stessi, per non silenziare il proprio istinto ribelle e accettare questa situazione a cuor sereno.
Altre dieci russate e sgozzo la bestia immonda vicino la mamma. Tanto siamo a Pasqua la festa dell'immolazione per antonomasia. Tutti capirebbero.
Mentre sto per fendere il colpo arriva da dietro un'amica della paziente numero cinque.
Mi parla.
Avverto solo un rumore roco indecifrabile.
Mi volto.
È Lele.
Ha un adenoma alla faringe attestato dalla gola ingrossata come quella di un pollo d'allevamento.
Martedì verrà operata senza speranze. Allora prenderà anche lei il suo bel numero, si adagerà da sola su un letto profumato senza battere ciglio compiendo fino all'ultimo il suo destino. E amen.
La conversazione tra le due si mantiene al limite della comprensione. Una voce rumorosa si oppone a un masticaticcio di sillabe maltrattate dalle labbra sciolte della mamma senza dentiera. Eppure tra di loro si intendono a meraviglia.
Nel frattempo la vicina ha attutito la russata.
Forse non la uccido subito.
Nella stessa stanza oltre la paziente numero cinque e sei c'è un'altra presenza, la numero sette, una carcassa quasi mummificata dal tempo.
Finora è rimasta immobile come non esistesse.
Il volto è parzialmente coperto da un piccolo lenzuolo bianco ripiegato più volte.
Se non avesse accennato un movimento con il braccio poteva sembrare già morta.
A quanto pare il lenzuolo le serve per proteggersi dalla luce e poter riposare così intensamente al punto da rendere quasi tutto.
Ora dormono tutti.
I rumori inquietanti si sono attutiti...
Finalmente un po' di pace.

… --- …
… --- …
Niente...


Scivolare... sul ghiaccio
La mamma non si è ancora ripresa dall'anestesia.
Ha conati di vomito in continuazione.
A sostenerla giunge anche una zia con una sua amica.
Il tempo di salutare... vomita per l'ennesima volta.
D'istinto ci voltiamo tutti contemporaneamente dalla parte opposta mimando involontariamente il movimento della mamma.
Sembra una gag studiata.
Non ride nessuno.
Manca il pubblico delle grandi occasioni.
Visto l'arrivo della cavalleria pesante decido di lasciare il campo di battaglia.
Veloce esco dalla stanza con la testa bassa.
Però qualcosa di sorprendente mi cattura.
Dopo la pioggia mattutina è comparso da poco il sole.
Attraverso le grandi finestre del lunghissimo corridoio ha modo di illuminare la scena con dei grossi spot.
Lo spettacolo è iniziato.
Due vecchiette sorridenti si muovono su due grossi box in acciaio. Uno a testa.
Con le mani poggiate su dei bracci meccanici protesi in avanti a mo' di volante si muovono leggere come stessero danzando un valzer.
Si rincorrono, si girano intorno.
Fanno un passo avanti e uno indietro.
Sempre con lo stesso ritmo, a testa alta, con il busto slanciato sopra la cintura metallica avvolgente come una lunga gonna ottocentesca a coprire fino ai piedi.
Quando si toccano come due dischi sul ghiaccio si respingono con leggiadria.
Una volta vinta la forza centrifuga si riavvicinano ondeggiando il corpo in avanti, pronte per un ulteriore spensierato incontro.
E via così ripetutamente...
Fin quando esauste ma felici dirigeranno le loro prue verso i rispettivi porti per ancorare i corpi stanchi su morbidi letti ricolmi di cuscini.

… --- …
… --- …
Ancora niente...


La zia ha versato tutte le lacrime.
Per due giorni è piovuto a dirotto.
Una pioggerellina continua.
Mai una schiarita.
Come nei peggiori inverni.
A intercalare un debole lamento ininterrotto senza infastidire troppo.
Poi alla fine arriva un po' di sole.
La zia da tempo stesa su una piccola zattera alla deriva tra flutti tempestosi ha individuato un'isoletta lontana.
La corrente la sta portando là.
Piano piano ha risollevato le stanche membra intravedendo una possibile direzione.
Poggiata sul bordo ha cominciato a spingere l'acqua con le mani.
Un colpo alla volta, senza fretta.
Per non affaticarsi troppo.
Destinazione Cupramontana. L'isoletta dove si spiaggiano le balene prima di tirare le ultime boccate d'aria.
Lontani ricordi i grandi sbuffi d'acqua prima di inabissarsi.
Con la pelle crepata dal sole al massimo si sollevano nuvolette di polvere mista a sabbia.
A contemplare lo spettacolo una miriade di insetti, di animali affamati impazienti di banchettare con la carcassa.
Oggi abbiamo mangiato insieme.
Fifty fifty, come due bravi sopravvissuti a corto di razioni.
Prima i più deboli, i resti a chi più ne ha.
Nonostante la leggera brezza di poppa, il corpo della zia è ancora del tutto passivo, quasi l'avesse già abbandonato prima dell'affondamento definitivo.
Ogni movimento richiede uno sforzo sovrumano, una concentrazione di volontà inaudita.
Dopo l'ennesimo S.O.S. lanciato a vuoto con il cellulare, la zia rimane di sasso.
Troppo lo sforzo.
Distesa a letto con la vestaglia indosso, la mano destra alta con il cellulare ben stretto, la sinistra lungo i fianchi a tenere il numero scritto su un foglio di carta, sembra la statua della libertà. Anche se piegata in orizzontale dai colpi della vita, con lo sguardo metallico perso nel vuoto.
Glielo faccio notare.
Ride un po', poi torna fissa nella stessa posizione in attesa di essere inquadrata da qualche radar.
Aspetta immobile i soccorsi lontani quanto una cieca speranza.
Per quanto potrà resistere ancora?
La luce negli occhi è sempre più fioca, il corpo freddo.
Fate presto!


Villa serena
Il cadavere già puzza.
Irreparabile la zia è stata spostata dalla catena di montaggio sociale in un limbo sospeso, in compagnia di altri fantasmi ancora non del tutto scomparsi. Una sorta di terra di nessuno a pochi chilometri dalla città immersa nella vegetazione.
Da dentro, l'intreccio dei rami sembra più una gabbia invalicabile, un muro divisorio dalla vita di tutti i giorni.
No non era quanto prefigurato.
Altre le aspettative, le speranze.
Un giro di vite duro da digerire.
Indietro non si torna, la zia lo sa.
Però non dice nulla.
A parlare sono solo i suoi occhi.
Non c'è più tempo per piangere.
Lontano ricordo il lusso delle lacrime.
Le nuove energie vanno conservate per sopravvivere al nuovo regime carcerario ben più duro di quello precedente.
Auschwitz è sempre più vicina.
Vale solo stringere i denti finché dura.
Nel trasferimento la zia si è alleggerita ancora.
Via tutti gli orpelli inutili, le zavorre.
Senza rimpianti ha lasciato pure la madonna fosforescente regalatele di recente.
A cosa le sarebbe potuto servire?
In questa fase post fede, post tutto si rimane soli alla mercé dei propri incubi.
Sulla nuova sede la zia si è limitata a dei sorrisi ironici, a qualche battuta appena accennata.
Che ne dici, non male no?
Un gesto ammirevole, un passo avanti inaudito verso la dimensione tragica.
Nella camera ci sono altri tre pazienti limite.
I corpi sono deformati e rinsecchiti.
Rintanati chissà da quanto in questa caverna buia in mezzo al bosco hanno perso l'abitudine alla luce. Anche perché le serrande sono abbassate nonostante il sole primaverile.
La zia è l'unica a conservare un volto umano in grado di esprimere sentimenti, ancor più di barare con le proprie emozioni.
Le altre pazienti sanno solo stazionare immobili dentro la propria crisalide trasparente in attesa della trasformazione o dare sfogo alle pulsioni senza più filtri, in modo del tutto anarchico.
A volte però, nei rari momenti di lucidità, ti guardano fisso con il corpo proteso verso la tua direzione come bambini curiosi.
Per un attimo i loro occhi si accendono.
Ma non osano dire nulla.
Cosa non farebbero per un contatto umano, una carezza, una parola gentile.
Quanto durerà.
L'abisso è spalancato, reclama tutto senza sconti con una calma snervante. Passo dopo passo prosciuga ogni energia, ogni sentimento come una voragine insaziabile.
No i nazisti non erano così bravi.
Il carnefice perfetto colpisce in silenzio senza farsi inquadrare.
Privo di qualsiasi pietà non concede la grazia della fucilazione, delle camere a gas, del morire di fame.
No, ti nutre, ti tiene in vita oltre ogni volontà, fino allo sfinimento.
Così, senza motivo.
Incurante di chi ha davanti.
Magari solo per saggiare i limiti.
Urge un nazista con la sua tecnica di morte.
Presto!


Res publica (piazza della)
Avevano cominciato a frequentarsi alla luce del sole.
Di preferenza si trovavano in piazza.
Comunque in un luogo pubblico per riappropriarsene al fine di rianimarlo.
Luoghi vuoti, austeri riprendevano vita battuta dopo battuta.
Anche quella sera si fece un circoletto con le sedie lì a disposizione.
Man mano passava il tempo la massa cresceva.
Inizialmente si era in due, poi in quattro, sette, dieci.
L'amico dell'amico dell'amico.
C'era chi aveva portato da mangiare, da bere. Le cose avanzate nel frigo, un po' di verdure, l'immancabile birra, del vino.
Qualcuno dava, qualcun altro prendeva secondo possibilità.
Come fosse diventato un centro attrattore le persone a zonzo senza meta venivano risucchiate.
Molti arrivavano da soli con i loro problemi. Qualcuno a piedi, altri in bici. C'era chi si limitava a girarvi intorno, chi si sedeva alla giusta distanza a fissare immobile.
Sotto sotto avrebbero voluto farne parte anche loro.
Bastava essere un po' più audaci, avere coraggio.
Alla fine dopo anni di isolamento a prevalere era il timore. Piuttosto preferivano raccogliere quanto riverberava di quell'energia.
Anche quella sera si consumò ogni cosa o quasi.
Battuta dopo battuta si era fatta mezzanotte.
Un nuovo giorno reclamava.
Era ora di portare le stanche membra a riposare in attesa di ricominciare tutto d'accapo l'indomani.


Country crash
Anche oggi in bici verso villa serena attendo di dipingere di rosso i ridenti campi della campagna marchigiana come i papaveri al sole.
Incuranti di tutto le auto sfrecciano spensierate verso improbabili mete.
Tra una curva e l'altra non disdegnano di tagliare i cordoli per scorciare distanze.
Impotente osservo i grossi musi avvicinarsi nella speranza di ricevere lo spazio dovuto.


Tragici senza ritorno
È più forte di me.
Quando vedo la mamma indisciplinata senza dentiera parlare farfugliando incurante di qualsiasi regola relazionale, un conato al basso ventre mi assale.
Allora divento intollerante, severo.
Da un lato impreco il fato, dall'altro detto condizioni.
Se vuoi parlare con me mettiti questa cazzo di dentiera.
Da domani un'ora al giorno in crescendo riabituati a usarla. Senno ciccia.
Lei mi sorride come un bebè.
Sopraffatta dalla sofferenza per un mese di immobilità a letto cerca affetto come un pargolo desideroso di tanto calore.
Non risponde più.
Fa solo gli occhi dolci.
Allora è naufragio con abisso senza ritorno.


Se questo è un uomo
La mancanza di comunicazione per l'estinzione di uno dei due interlocutori è il segno dell'avvenuta trasformazione.
La zia dopo aver chiesto la sostituzione della sacca anale, dopo averla riempita di nuovo dopo pochi secondi, non osa avvicinarsi agli infermieri per sollecitarli a ripetere la stessa operazione.
Non vuole disturbarli più.
Forse li teme.
Ha paura di indisporli, di renderseli ostili.
Preferisce soffrire, chiudersi nel silenzio, aspettare l'improbabile intervento di qualcuno senza più chiedere.
L'idea stessa di farlo le trasmette un senso di inquietudine e di imbarazzo. Lo si vede dagli occhi persi, dal sorriso ebete infantile.
Al momento non c'è più un briciolo di umanità.
La zia sembra già morta.
Non vale lo stesso discorso per la mamma.
Ha ancora la forza di aggredire chiunque.
Il sottoscritto nella fattispecie.
Vorrebbe un figlio amorevole, servizievole, sempre presente, disposto a seguire a puntino la sua volontà.
Invece la evito come la peste.
Quando non vi riesco una valanga di parole violente mi assale. Con altrettanta violenza rispondo.
L'odio cresce.
Maledico il destino, l'idea di avere vicino una sconosciuta aliena insopportabile, abbruttita ancor più dalla malattia.
Bisognerebbe passarci sopra magari in nome della famiglia, della vita come momento privato assoluto.
Secondo i parenti ogni cosa è dovuta per nascita, per debito di sangue.
Odio la loro misera visione anche perché non la posso evitare. Mi tocca conviverci.
Con il babbo non c'è praticamente dialogo, non dice mai nulla, al limite risponde:
Fai come ti pare.
Come cazzo si risolve questa situazione di merda.
Chi ha una soluzione?
Il peso è già grave per tutti.
Un niente per sprofondare ancor più.
Solo le zanzare non si danno troppa pena.
Incuranti di tutto continuano a succhiare avidamente il sangue per nutrire i loro piccoli.


Mamma mia!
Mamma mia!
Oh mamma mia!
In camera della zia ora sono in quattro.
Quella di fianco ha appena subito un clistere e si lamenta in continuazione.
Le dico qualcosa per farla calmare.
Mi risponde puntuale:
Se fossi al mio posto diresti lo stesso.
Si, si... te vojo proprio vede...
Pure se ciò novantanni non so scema.
Uaoh... Colpito e affondato.
La signora davanti è stizzita.
È stata cazziata dalla novantenne perché dice di vedere cani.
Guarda là, non li vedi?
No, non li vedo.
La signora di fianco, quella senza una gamba, vorrebbe andarsene per non sentire più i continui lamenti. Ma non può.
Non vedi non ciò la gamba.
Vai in sedia a rotelle...
Eh no.... vengo alzata dal letto una sola volta al giorno quando c'è il fisioterapista.
Beh comprati dei tappi per le orecchie.
Cavolo non ci avevo pensato.
Poi rivolta alla badante...
Me li porti domani?
Anche il sottoscritto è arrivato al limite.
Ho appena comunicato tutta la rabbia alla zia senza filtri. L'unica in grado di ascoltare, non certo di capire.
Mi risponde.
Lo sai oggi è morta una signora di cento anni.
Ah sì?
Vado a prendere da bere... così si festeggia!


Amore con il contagocce
Era partito confuso verso Bologna per mettere non meno di duecento chilometri dai propri problemi, dalla personale zavorra tutto annichilente.
Cos'è un uomo se non può scegliere di fare o non fare?
I vincoli se troppo stretti uccidono la creatività, la voglia di vivere. Ti portano solo a amministrare la vita da servi, a essere al servizio di, a abnegare se stessi contro la propria volontà.
No, non era per lui.
In questa situazione si sentiva affogare, avrebbe voluto scomparire.
Allora diceva no.
Malediva i fardelli con tutto se stesso provando a creare delle isole di opportunità per mescolare le carte, per dare una scossa.
Quel giorno la ciclofficina era ancora chiusa.
La porta era sbarrata dalla pesante saracinesca arrugginita.
Fuori non c'era nessuno.
In passato non era mai stato un grande costruttore di bici. Gli interessava altro. Tutto quanto vi ruotava intorno. Però quel giorno anche il solo fare era una prospettiva piacevole. Come tornare a casa, impegnarsi in qualcosa di futile senza troppe preoccupazioni.
Era salito anche per vedere gli amici.
Sul treno li aveva contattati con dei semplici sms.
La più pronta a rispondere era stata la giovane amica francese diventata con il passare del tempo un punto fermo nella sua esistenza.
Finisco di studiare e arrivo!
Eppure quel giorno altri erano i percorsi.
I segni parlavano chiaro.
C'era solo da mettersi in gioco abbandonandosi alla cieca, al proprio sesto senso.
A deviare traiettorie, disegnare nuove possibilità ci avrebbe pensato una banale gastro enterite virale.
Il sole volgeva al tramonto.
Quella notte sarebbe stata la più buia del mese.
La luna si era nascosta del tutto, non rifletteva più nulla.
Abbandonati a sé stessi, in piena notte oscura emergevano sotterraneamente tutti i problemi, le debolezze.
Bloccata a casa da conati di vomito la giovane amica aveva già reso per due volte l'anima. L'emorragia sembrava inarrestabile al punto da prendere il sopravvento su ogni emozione. Per la sofferenza la voce era cambiata. Era divenuta più bassa, tremolante, monocorde come se il diaframma fosse stato bloccato da un crampo lancinante.
Andò a trovarla a casa.
Ci teneva a incontrarla nonostante la situazione particolare.
Entrato in camera la vide a letto con a fianco la bacinella pronta a rendere tutto.
Non era la prima volta a trovarsi nella condizione dell'angelo custode.
Lo faceva con piacere.
Quando stavano insieme bastava uno sguardo, un sorriso per provocare un cascame di sensazioni intense. Una forza dentro in grado di attivarlo come se fosse preso all'amo e tirato piacevolmente verso l'altra con tutto sé stesso. Avrebbe dato qualsiasi cosa pur di farla stare bene. Senza compromessi né ma.
Innanzitutto andò in farmacia a comprare un antiemetico per arrestare la sensazione di nausea.
Prima di uscire le svuoto il secchiello pieno di vita fuoriuscita, poi le accarezzò il volto come una mamma affettuosa.
Stava bene.
Un'energia potente aveva pervaso ogni sua cellula.
Un vertice emotivo.
Tutto quanto non riusciva a fare con la propria mamma bloccata a letto era ora eseguito naturalmente in piena apertura verso l'altra.
L'indomani scese giù.
Nemmeno il tempo di passare a casa era già all'ospedale.
Provò a trasmetterle quell'energia accumulata la sera prima.
La pettinò, l'abbraccio con affetto.
Quel giorno sembrava tutto facile.
Un miracolo.
L'indomani sarebbe stato certo più difficile anche perché quella forza accumulata si sarebbe presto esaurita, consumata dal buco nero della mamma. Un deserto capace di prosciugare tutto fino all'osso.
Ma non bisognava disperare.
Qualcosa di nuovo sarebbe successo.
Una nuova auto-etero attivazione avrebbe rimesso in moto quello strano meccanismo relazionale simile per funzionamento alla logica dei vasi comunicanti. Seppur all'interno di un sistema chiuso a energia limitata distribuita con il contagocce.


Su e giù...
Si sale ancora verso Bologna.
In bici fino a Senigallia, poi con il treno.
Ho giusto un'ora di tempo.
Ce la posso fare.
Messo il computer nello zaino, presi i pochi indumenti indispensabili parto.
A metà strada arrivo al mare.
Il vento tira forte.
È contro.
La pedalata diventa difficile.
La velocità rallenta paurosamente.
Non mi scoraggio.
All'incrocio con la litoranea vedo un ciclista con la bici in titanio.
Va nella stessa direzione.
Poche pedalate e lo raggiungo.
Per un po' mi accodo ma va troppo piano per arrivare puntuale in stazione.
Rifiato un po', poi lo supero.
Nonostante il vento tiro a più non posso.
Mi sta dietro.
Dopo quattro chilometri sono già sfinito.
Dentro di me penso... Ciccio tocca a te.
Glielo dico.
Si fa un po' per uno?
Senza fiatare è già avanti. Ha messo le marce dure e va come un treno.
Uaoh... la persona giusta.
Dopo qualche chilometro lo affianco. È il momento di fare conoscenza.
Hai una bella pedalata mi dice.
Anche tu non scherzi.
Sembrano quelle frasi femminili del tipo... bei capelli, che smalto lucente, sebbene adattate all'universo maschile.
Da dilettante gareggiava.
Anche adesso quando può si getta nella mischia.
È di Napoli.
Si chiama Gerardo.
Non ho l'ora così gli chiedo quanto manca alle undici.
Dieci minuti.
Non ce la posso fare...
Andata, perso l'appuntamento.
No! Non ancora!
Risponde Gerardo deciso.
Neanche il tempo di finire la frase è già a dare tutto per aumentare l'andatura. Lui davanti e io dietro.
Mi tira come un gregario verso il fatidico traguardo.
La velocità aumenta considerevolmente nonostante il vento.
Ci muoviamo a zig zag tra il traffico urbano.
Senigallia è ora più vicina.
Ancora pochi minuti di pedalata e ci siamo.
La stazione!
Hai anche il tempo per il caffè!
Ci si saluta con affetto senza fermarsi mai.
Scendo dalla bici dentro l'atrio della stazione.
Davanti c'è la biglietteria.
La ragazza dietro lo sportello mi riconosce.
Sorride, poi mi chiede...
Bologna?
O yes!
Il treno è già arrivato.
Niente caffè.
Il tempo di timbrare, di salire, sono già in movimento.
Fiuh... anche stavolta c'è l'ho fatta per un pelo.
Grazie Gerardo!


Luna rossa
Altri giorni andati.
L'ennesima luna piena.
Ma non come il solito.
Questa sera eclisse totale e luna rossa.
Per la giovane amica francese un ciclo si chiudeva.
Compimento e fine sarebbero coincisi nel modo più spettacolare.
Seduta sulla sedia della sala d'aspetto dell'aeroporto guardava fuori la luna tingersi lentamente di rosso per poi scomparire del tutto bissandosi nel nero del cielo.
Entrambi stavano con il naso all'insù.
Non era importante la distanza.
Anche stavolta la luna li teneva uniti nei loro pensieri.
In campagna a illuminare la notte erano rimaste solo le lucciole. Tantissime, come una polvere d'oro.
Dopo un tempo abbastanza lungo la luna offuscata dall'ombra della terra decise di fare capolino.
Una sottile fetta giallo lucente pian piano si riprese lo spazio nel cielo stellato.
Vinta la battaglia con le tenebre alla fine tornò a splendere tutta non prima di essersi fatta il maquillage con la polvere arrossata della terra.
In passato tale evento avrebbe suscitato visioni celestiali, narrazioni cosmiche miste di timore e di entusiasmo al punto da far traboccare gli animi. Eppure oggi tale spettacolo naturalizzato annoia.
Fa qualcosa...
Muoviti...
Non stare lì ferma come una soubrette fasciata di luce per un attimo smascherata e senza trucco.
Oggi non basta più apparire, si richiede altro.
O forse non si hanno più gli occhi per vedere come un tempo. Vallo a capire.
Quel giorno era un punto di svolta anche per la mamma.
L'indomani, al massimo il giorno dopo ancora, sarebbe stata trasferita al Santo Stefano, un ospedale specializzato nel recupero dei casi disperati come il suo.
Anche la zia pochi giorni prima era uscita da Villa Serena.
Col passare dei giorni si era man mano abituata a quel regime carcerario.
In fin dei conti non si stava così male.
Le bastava poco.
Non sentire quei dolori lancinanti al retto.
Incitata a fare i bagagli dal nipote se ne era tornata a casa.
Per i dottori dell'ospedale sarebbe potuta rimanere senza limiti. Se no poi come avrebbero ammazzato il tempo?


Lazzaretto
Venerdì la mamma è stata trasferita in ambulanza al Santo Stefano.
L'ospedale è in riva al mare.
Soltanto pochi metri e ci si potrebbe bagnare non fosse per la sottile linea ferroviaria invalicabile come un muro di cinta.
Il paradiso a una spanna eppure lontanissimo.
Però lo si può mirare dalle vetrate del secondo piano.
Uno spettacolo bellissimo e lacerante per chi sta chiuso lì dentro in attesa di chissà quale miracolo.
Appena entrati dalla porta d'ingresso principale si viene investiti da uno stuolo di freak in carrozzella liberi di girare tra le piazzette e le vie di raccordo tra uno stabile e l'altro.
Persone deformi, diversamente abili e coscienti sorridono beote in continuazione nonostante la testa storta, il volto deturpato, la mancanza di un arto.
C'è chi si sposta in carrozzella mosso da un solo piede come fosse sullo skate.
Però va lento.
Con movimenti catatonici si avvicinano a te.
Vogliono qualcosa, un contatto, un aiuto nelle piccole cose quotidiane.
O sono semplicemente curiosi.
Per attirare l'attenzione sorridono intercalando note monotone.
Hi hi...
He he...
Non stanno male.
Eppure sembrano non poter uscire dai confini dell'ospedale.
Sull'asfalto c'è pure disegnata la corsia preferenziale per le carrozzine, vicino l'uscita un sottopassaggio utile per raggiungere un giardino chiuso da una rete metallica posto al di là della statale.
Però è vuoto.
Nessuno di loro sembra interessato a confrontarsi con la realtà là fuori.
Meglio evitare di dare spettacolo per un pubblico indifferente non in grado di apprezzare.


Il processo
Essere condannati a morte la pena.
Sebbene senza alcuna motivazione plausibile.
Verrebbe da dire tutto ciò è assurdo.
Vano il tentativo di trovare un atto di imputazione o di dichiararsi innocente a prescindere.
Se ci si autoaccusa pur senza sapere la causa resta solo di scegliere la colpa.
Una qualsiasi può andare bene, tanto l'una vale l'altra.
Davanti al tribunale della vita nessuno ti condanna apertamente. In aula c'è solo il posto dell'accusato immerso in un silenzio assoluto.
Vano il tentativo di dare un senso alla pena.
Il rumore, le voci dell'imputato servono a coprire quel vuoto per stanare l'accusa. A volte sono solo un pretesto per sostituirsi a essa e autoaccusarsi di qualcosa. Così per giustificare la propria tortura a morte.
La verità è scritta lentamente nella carne fino al punto di lacerare i tessuti durante l'agonia.
Per il condannato a morte senza motivo apparente difficile resistere a non confessare qualcosa provando a identificarsi con il proprio carnefice.
Meglio sarebbe professare la sospensione e della colpa e dell'innocenza.


Coccole
Quella sera non c'era luna piena, era un giorno qualunque, una domenica come tante altre passate in ciclofficina a riparare bici incidentate.
Si era trovato con Silvia per sistemare una ruota malconcia. Insieme ce l'avevano fatta non senza intoppi. Però alla fine la bici funzionava bene e il fare insieme aveva rinsaldato anche il loro umore.
Decisero di mangiare da lui, non lontano dalla ciclo. Era sera tarda, la pizzerie della zona era già chiusa.
Fecero l'alba a parlare seduti sul terrazzo l'uno di fronte a l'altro mentre i vicini riposavano silenziosamente.
Dormirono insieme.
Erano reduci, ognuno con le proprie storie diverse. Ma non era importante. Non c'era da sapere molto. Bastava la loro fragile umanità, la sensibilità non comune.
Da più di otto anni non passava la notte abbracciato con una ragazza. Però era tranquillo. Sapeva cosa voleva. Glielo disse con semplicità.
Lei acconsentì. Era quasi ovvio, scontato.
Senza dire nulla poteva succedere di tutto. Bastava stare vicini con i corpi a contatto, abbandonati alle proprie sensazioni.
Nel buio della notte fece capolino anche la parola “coccole”. Un lemma strano, capace di contenere tutto e niente.
Lui stava bene, non cercava né voleva fare altro.
Si sentiva libero, sciolto da tutto, da ogni impegno e responsabilità.
Non sarebbe accaduto nulla più.
La mattina si sveglio presto.
Si strinsero insieme con forza, le baciò delicatamente la spalla, poi si alzò.
Alleggerito da ogni desiderio voleva solo continuare per la sua strada come ogni giorno.
Nell'attesa del risveglio della compagna prese il solito libro, cominciò a studiare con piacere sollevato da tutto. Poi mangiarono insieme prima di confondersi nella mischia quotidiana, rinfrescati intimamente dalla presenza dell'altro.


To be or not to be... this is the question...
Voglio morire!
Anzi no... non voglio morire!
Fosse disponibile un sicario sarebbe tutto più semplice.
Ma se la zia deve scegliere prevale la tentazione di provarle tutte, anche le soluzioni più atroci, compiendo un destino apparentemente irrevocabile quanto il dover bere il calice amaro della vita fino all'ultima goccia.
Il problema l'intestino divorato dal basso dal cancro.
La scommessa spostare sempre più in alto l'ano artificiale.
Al limite bocca e ano potrebbero coincidere.
Mangiare espellendo tutto subito in un sol boccone.
Come trasformare acqua in aceto.
Si potrebbe pensare di passare, di dire basta e non scommettere più. Fine, end, compimento, sospensione.
Ma le cose non stanno così.
Il dispositivo biologico dell'autoconservazione ti porta a elevare sul piedistallo più alto il valore della vita in sé. Sebbene privata oramai di qualsiasi qualifica positiva. Anche al costo di diventare ano e basta. Un ano parlante, un toro circolare sempre più sottile. L'estrema scommessa della natura: lavorare a togliere, per sottrazione.
Cosa rimane alla fine?
Michelangelo vi aveva intravisto degli schiavi stritolati dalla materia avvolgente. Eppure senza quella materia quegli stessi schiavi non sarebbero potuti essere. Liberarli significava renderli solo dei fantasmi eterei, pura apparenza magari gloriosa.
La zia non parla più.
Seduta sulla sedia con gli occhi persi vorrebbe un amore infinito capace di sospendere il suo dilemma abissale quanto un buco nero tutto divorante.
Chi possiede questo amore disumano?
Troppo grosso il carico da sopportare, troppo pesante la croce da sostenere fino al calvario, meglio affogare i pensieri, dimenticare tutto, annullarsi a puro corpo, vita nuda in sé per sé. Per questo perfetta, compiuta nel suo nichilismo antropologico.
Cosa resterà della zia?
L'intervento come funtore biologico capace di sospendere e di aprire verso un nuovo stadio esistenziale, sebbene a perdere.
Quale altra forma residuale di vita oscena si genererà?
Quale mostro verrà partorito non senza dolore...
Probabilmente un altro freak dalle belle speranze.
Potrà essere ancora felice, appagato della nuova esistenza?
Sarà ancora umano?
Ai presenti rimane la contemplazione sublime del nuovo miracolo della vita.
A fronte di tanto spettacolo ci sarà ancora qualcuno a applaudire l'ennesimo tentativo di creazione demiurgica?
Ei aspettate ancora un poco...
Non lasciate la sala...
Non è finita...
C'è pronto un altro mirabolante spettacolo.
Che non c'è limite alla fantasia!


Quale sensazione può suscitare l'aprire gli occhi e sapere di esserci ancora. Come svegliarsi la mattina presto dopo un sonno interminabile. Il tempo di ricucirsi i panni addosso, di rifocalizzare le coordinate spazio temporali.
No l'incubo non è finito...
Cosa potrà riservare di positivo la giornata.
Per un attimo si fa pure strada la sensazione di essere immortali, indistruttibili.
In fondo si è vivi nonostante tutto.
Non dura a lungo.
Basta la sensazione di nausea, poi un conato di vomito per capire come stanno le cose.


Povera sono nata, povera morirò...
La luce è quella del crepuscolo.
Le serrande sono rade abbassate fino a terra.
Si vede poco ma non è buio.
Un chiarore diffuso avvolge i corpi, li staglia in chiaroscuro senza eccedere.
Ogni superficie viene investita calorosamente quasi si stesse davanti al focolare domestico.
La scena apparsa all'improvviso dopo aver varcato la soglia d'entrata della camera ricorda certe “sacre famiglie” immortalate da alcuni pittori lombardo veneti del cinque seicento. La stessa intima luce notturna di un Lotto o un Tintoretto. Però il luogo non è una stalla ma una semplice camera d'ospedale, anche se sarebbe potuto essere un bunker di Berlino in procinto di essere espugnato dall'armata rossa o una stanza addobbata del palazzo d'inverno circondato da rivoluzionari inferociti. Una tranquillità irreale prima del fatidico crollo, sospesi nella terra di nessuno in attesa dell'apocalisse.
Attorno al letto c'è uno stuolo di persone.
La zia distesa sul materasso dispensa battute ironiche come un papa.
Al suo fianco c'è la vicina.
Scesa dal letto, le è seduta accanto mano nella mano.
È una signora immensa come una montagna di panna sopra il profiterol.
Nonostante l'operazione subita risponde con una vocina angelica come quella di una bambina credulona sempre sorridente.
Altro non può fare.
Davanti le manca un dente.
Ciò la rende di un'umanità smisurata neanche fosse la superstite di un incidente aereo o di un naufragio nei mari tropicali.
Appoggiate l'una all'altra si fanno forza indolentemente.
A circondare la zia c'è poi uno stuolo di amici, chi seduti al letto, chi sulla sedia di fianco.
Come per un bebè appena nato sono venuti in adorazione.
Si respira un clima entusiastico, di eccitazione strana, eccessiva, solo per mascherare la tempesta in arrivo. Una sorta di quadretto del paese della cuccagna immortalato da un Bosch demoniaco ispirato.
La vita ha prevalso ancora. È riuscita a ritagliarsi un ulteriore scenario dove dare spettacolo, commemorarsi. Sebbene sappia di non poter resistere a lungo.
Con il piede fuori dalle lenzuola la zia cerca un contatto con i vicini come farebbe un gatto con le fusa.
Ei sono qui, accoglietemi, datemi il vostro affetto... Nonostante il fetore delle carni marcescenti a impregnare l'aria, il vomito continuo per il riflusso gastrico.
Siamo entrati in un nuovo girone de sadiano: quello del vomito, dopo quelli della mania, della merda, del sangue. Girone preannunciato poche settimane prima dalla gastroenterite virale di un'amica a Bologna, attestante il rituale della restituzione di tutto, a partire dalla vita esalata a fiotti.
Vengo invitato a prendere parte al quadretto.
Rifiuto...
Preferisco rimanere alla giusta distanza per scattare un'istantanea con il cellulare della zia. Prima di rendere anche quell'immagine inconsistente come tutto.


Questioni di natura...
Tanto e non più!
Ripete la vicina della zia.
Sembra questa la quadratura del cerchio per il suo intestino! Se no son guai...
All'interno dell'amministrazione banale della vita ogni cellula è preordinata a compiere il proprio ruolo. Cambiare sodio con potassio, svolgere la reduplicazione dell'rna nei ribosomi e così via... Rispettando quel tanto e non più... Fermarsi non è concesso, ne andrebbe della loro stessa esistenza. Altro non possono fare. Anche quando non c'è più un sistema generale in grado di coordinare tanta febbrile microattività.
La zia si sta pian piano sfasciando. Pezzo dopo pezzo. Come quelle vecchie carcasse arenate in qualche spiaggia.
Senza più comandante alla regia i muscoli del volto sono lenti, quasi inespressivi. Così la bocca sta naturalmente aperta. Sebbene non del tutto. Il cuore pompa ancora, i polmoni scambiano ossigeno con l'aria. Ma senza l'armonia di una volta.
Non posso far altro di documentare tale sfacelo.
Sto al suo fianco con la penna in mano distaccato.
La vita, in questo caso la morte, non riesce a emozionarmi. In barba a tutte quelle trasmissioni tipo la morte in diretta o i film strappalacrime sul capezzale. È un evento così normale da annoiare da morire.
Cellule del cazzo quando smetterete di produrre ATP... pompe dei sali quando bloccherete il flusso delle sostanze. Non mi va di stare con le mani in mano a aspettare come una di quelle pie donne accanto al “Cristo de scurto” del Mantegna. Fare il testimone è il personale modo di non partecipare passivo agli eventi, di non dare il mio fiat a tale sceneggiata.
Ho altro da fare!
Il mio anelito vitale, le mie cellule non sono organizzate per stare ferme davanti a della materia inerte. Sono una macchina predisposta a agire, a non girare a vuoto senza senso e meta. Assistere passivo all'esalazione dell'ultimo respiro non è un evento contemplato dai miei comportamenti standard.
Sono stato messo in questo mondo senza preavviso...
Va bene...
Mi hanno imposto un gioco spietato...
E va bene pure questo...
Ma almeno provo a cambiare le regole sospendendole per quanto mi è concesso dai miei sistemi di regolazione, dalle leggi cui sottosto.
Per un attimo la zia ha aperto gli occhi. Sembra volere comunicare qualcosa. Sollecitata prova a rispondere alle nostre domande con un si e no espresso dai movimenti del volto. Ma non c'è modo di dialogare.
Cellule industriose come tanti soldatini al fronte quando vi arrenderete? Firmate il vostro armistizio, accettate di deporre le armi diventando inoperose. Per voi è finita!


Amministrazione quotidiana
Ci siamo!
I parenti, gli amici più stretti si preoccupano di attivarmi per gestire il dopo!
Tanto lo sai come vanno queste cose.
Non perdere tempo.
Vatti a informare prima.
Secondo la zia Mariola la zia avrebbe già disposto ogni cosa.
Tua zia ha già un forno!
Quello di zia Armanda e del marito.
Prima però bisogna rimpicciolirli.
Una volta fatto spazio c'è posto pure per lei.
Però d'estate non vengono aperte le bare, né ridotti i cadaveri. Fa troppo caldo! Perciò bisogna parcheggiarla fino a settembre da qualche parte.
Potrei mettere a disposizione il mio fornetto.
Perché spendere tre quattro mila euro quando lo spazio c'è già? Vuoi non ci abbia già pensato? Senti ne parlo con tua madre. Lei saprà certo cosa fare!
Insomma siamo all'ultimo atto, una sorta di couch surfing post mortem per rompere l'unione dei coniugi tumulati in vista di un menage a troi... Alleluja!...
A proposito se vuoi la messa devi pagare pure quella!


La zia mehaigné (magagnata)
Il serpente canceroso avanza verso l'alto come una kundalini. Non ha ancora compiuto tutto il suo cammino lasciando la zia sospesa. Più di là che di qua. Lì sul punto di soglia. Viva e morta allo stesso tempo come il gatto di Schrödinger. Vestigia di qualcosa che fu eppure non del tutto scomparsa.
Il sacrificio della zia non è si ancora compiuto del tutto.
Un resto minimo è rimasto inevaso.
Lo sterminio non ha raggiunto la perfezione.
Non gli è stata fatta ancora la festa.
Eppure questo resto è in grado di sopportare una memoria, di far emergere una memoria simbolica condivisa, di indurre azioni negli altri. A sua volta potrebbe essere la portavoce epigona di un antico messaggio di una catastrofe remota, propagato grazie a una residuale radiazione di fondo capace di portare a rinnovare quell'evento in vista di una possibile risoluzione!
Quella catastrofe non si è ancora conclusa.
La conflagrazione non è terminata.
Se ne aspetta la fine da tempo immemore.
Forse la morte è proprio quel punto vuoto dove si decide della vita. Cioè si opera una frattura, un taglio irrimediabile, senza più la possibilità di salvare qualcosa. Al di là di possibili residui periferici in grado di disseminarsi nomadicamente, di autorigenerarsi in altro. Per inventarsi qualcosa pur di provare a essere.
No la morte non si è ancora compiuta.
Almeno fin quando la vita conserverà il potere di amministrarsi risorgendo dalle proprie ceneri.


Mago Zurli
Le previsioni di oggi indicano tempesta.
Barricati in casa ci si sente ostaggi della situazione.
Si vorrebbe uscire, fare sport su un prato.
Ma non è possibile.
Sequestrati dagli eventi si è in attesa di una schiarita per partire con nuovi progetti.
La zia appena uscita dall'ospedale è andata in crisi di brutto. Senza più timoniere in mezzo ai flutti delira. Altro non può fare, ostaggio della propria emotività, di un pensiero distaccato da tutto capace solo di girare a vuoto inarrestabilmente.
La nave affonda e la zia si attacca a qualsiasi legno disponibile per non sprofondare definitivamente.
Questioni di tempo.
La nuova apocalisse avviata ha la sua storia. Un inizio, uno svolgimento, un'economia votata alla sopravvivenza assistita. Tutto per inseguire una possibile fantomatica qualità della vita.
Riuscirà il sistema zia a reggere l'urto, a mettere ancora insieme i pezzi residuali, il salvabile?
Finora ha dato prova di una resistenza inaspettata.
Oltre il delirio, il vaneggiamento, il suo corpo non molla. Anzi resiste strenuamente, prova a riorganizzarsi per ripartire di nuovo. Come fosse un terminator inarrestabile in grado di trasformarsi inesorabilmente in qualcosa a partire dai propri cocci smembrati.
Datemi tempo e vi stupirò.
Si è tutti in attesa del nuovo miracolo. Titubanti e spaventati casomai del dopo. L'ulteriore livello del gioco. Uno step in cui può accadere di tutto. Prima del fatidico game over.
In tanta trepidazione rimane solo da ridere a crepapelle senza apparente motivo. In macchina, sulla scrivania sopra i fogli bianchi. Senza un perché. Un riso puro, viscerale. Una ginnastica mascellare per attivare un po' di positivo così da mettere in scacco abitudini implicite deleterie. Un modo come tanti per distogliere l'immaginazione barando.


Biodiversità
Sarà per aumentare le varietà, comunque da tempo era tenuto in vita da nemici prossimi, i genitori, la zia.
Per anni aveva combattuto il loro mondo, la loro visione della vita. Sebbene all'occorrenza avesse provveduto alla loro conservazione. Una sorta di paradossale parassitismo simbiotico. Fuori dalle solite regole dello scambio mutualistico.
Tutto nei limiti della sopportazione reciproca.
Agiti dall'odio più che dall'amore.
Stando in equilibrio precario.
Come con un cancro.
C'è, te lo tieni, ci convivi.
Però la troppa vicinanza faceva male.
Dopo un breve contatto urgeva la distanza.
La più profonda possibile.
Senza allontanarsi troppo.
Stando lì nei paraggi.
Il tempo di perdersi di vista, di non sentirsi più.
Alla faccia del buon samaritano.
Mossi dallo stesso entusiasmo necessario per conservare un panda o uno squalo.
La cura minima necessaria.
Con una garza asettica sulla sinistra e il coltello pronto a essere brandito sulla destra.
E non si trattava di vincere l'uno sull'altro.
Si sapeva già di aver tutti perduto a prescindere.


The fly
Quanto rimasto della zia aveva ingaggiato una dura lotta per la sopravvivenza.
Nulla era risparmiato.
Il computer di bordo, seppur scassato, aveva ricominciato a girare.
Era necessario un piano d'emergenza.
Subito!
Senza esitazione alcuna.
Andava fatta un'attenta analisi della situazione per valutare cosa salvare, cosa utilizzare nell'evenienza. Bisognava stringere alleanze, tagliare i rami morti. Non c'era tempo per ulteriori riflessioni sulla propria miseria, né per l'ironia. Ogni energia andava canalizzata per agire più velocemente possibile con il minimo spreco.
Una lucida follia si era impossessata della zia.
Resistere a qualsiasi costo.
L'unico nipote a disposizione era stato inglobato nel suo delirante progetto. A quanto pare ne rappresentava un tassello imprescindibile. Per questo veniva messo alla prova.
Quanto mi ami...
Quanto posso contare su di te?
Solo l'amore come un laccio invisibile sarebbe riuscito a legarlo al suo corpo. Senza si sarebbe sentita perduta. Null'altro al mondo avrebbe potuto trattenerlo a lei.
Così appena entrava nel suo mirino gli chiedeva di espletare compiti basilari anche se non ce n'era il bisogno.
Sollevami dal letto...
Dammi da bere...
Guarda qui...
Indicando le ferite ancora aperte.
Ma soprattutto accettami per come sono.
Amami incondizionatamente al di là di tutto.
Della mostruosità, degli umori, dei liquidi fatiscenti.
Amami e basta.
Senza fiatare.
E se non ti viene naturale, imponitelo.
Ma tutto doveva partire dal corpo, dalla sua cura, dalla manipolazione pratica.
Toccami...
Non stare lì a fare niente.
Accarezzami!
Donami il tuo amore sennò muoio.
Senza sono nuda, indifesa.
Fa tanto freddo.
Ricoprimi d'affetto.
È tutto quanto può ancora salvarmi.
Ma la situazione non stava così.
Tutt'altra cosa la realtà rispetto le fiabe.
Al nipote veniva più naturale prendere le distanze agito da una tensione al basso ventre, dalla nausea soffocante.
Quanto sarebbe durato ancora il girone del vomito?
Ma forse il problema era ancora più grande.
Quel letto in mezzo alla stanza era diventato il sinedrio circondato dalla folla inferocita. Un mondo con le sue regole pronto a giudicare e a condannare il deviante di turno se messo in discussione.
Per una parte contava solo l'esecuzione, l'allineamento, l'obbedienza, la difesa di un senso ereditato. Per l'altra l'arresto, la sospensione, la disseminazione anarchica.
Uno scontro di forze.
Alla fine uno contro tutti.
Sarebbe riuscito a cavarne fuori le penne?
La sera portò il corpo stanco sui gradini della piazza antistanti il bar del teatro.
Sempre più reduce si riposava per l'indomani. Impossibilitato a comunicare ai suoi amici il peso della battaglia sostenuta, il livello dello scontro in atto invisibile ai più.


A ben vedere oltre qualsiasi logica della colpa e della pena, oltre qualsiasi responsabilità soggettiva, in fondo a tutto si contrapponevano due visioni della vita antitetiche. Forse le facce distinte di una medesima medaglia.
Da un lato una volontà di adattamento infinita votata a una continua trasformazione radicalmente conservativa. Dall'altro invece l'attitudine di arrivare a dire “è abbastanza”, tutto è compiuto, finito, ogni secondo in più inutile, osceno, irrispettoso, ingeneroso.
La vita ottusa incontenibile contro la battaglia per limitarla, de-finirla, de-terminarla. Al punto di desiderare di scomparire, di restituire tutto. Per sfuggire da tale pulsione cieca e indifferente capace di dare alla testa se non abituati a riconoscerla, a prenderne le distanze.
Una sorta di rinuncia come in un rito esorcistico.
Rinunci alla vita?
Si, rinuncio!
Per tornare a essere non posseduti. Liberi e affrancati dai legami economici da essa imposti.
Insomma superare l'atto creativo sospendendolo.
A partire da se stessi.
Come esempio per tutti.
Non lavorare più per la vita.
Scioperare.
Per non avere più un ruolo attivo nella sua conservazione smisurata, eccessiva.


Rendez-vous
Il primo agosto a Bologna.
Da varie settimane non si sentivano.
Quella data e quel luogo erano stati fissati da tempo.
Quello era il giorno topico capace di attrarre come la scia di una cometa.
Si sarebbero fatti in quattro per non mancare, per esserci.
Tutto il resto sarebbe passato in secondo piano.
Le chiacchiere successive, l'abbraccio finale.
A contare più di ogni altra cosa era l'istante dell'apparizione reciproca.
Li si sarebbe compiuto l'evento.
Quello era il loro modo di donarsi.
Non attraverso qualcosa ma ancor prima dando la possibilità di farlo.
Alla fine il vero dono era lo stare lì per l'altro. Il movente in grado di trasformare un momento come tanti in un avvenimento memorabile.
Poi ognuno avrebbe preso la propria strada come sempre. Lui diretto verso le braccia tremolanti della zia catatonica. Lei verso territori sconosciuti in bicicletta.
Entrambi a caccia di esperienze nuove.


Vita non lasciarmi...
Volème bè...
L'ultima invocazione disperata della zia.
Il dispositivo della vita a qualunque costo è un imperativo inarrestabile sciolto da tutto. Secondo una logica sovrana dispotica. Chi ne cade vittima ne diviene un esecutore diligente, impietoso.
Ci si abbandona alle sue braccia per la paura del vuoto, della perdita, a causa dell'attaccamento a dei valori positivi ritenuti imprescindibili per provare a tappare la falla da sempre spalancata sotto i piedi.
Pur di resistere si sarebbe disposti a tutto.
Ma tale forza trattenente è solo un palliativo.
Inutile conservare o soggiogare l'altro ai propri bisogni residuali.
Eppure non si riesce a pensarla differentemente.
Troppe le difese da abbattere.
Rimane solo la via del collaborazionismo a oltranza con il programma vitale elaborato dalla cultura occidentale in questi ultimi secoli.
Il “paradiso” è qua.
Nonostante tutto.
Fosse anche l'inferno camuffato.
E non lo si vuole mollare con tutto sé stessi.
Devi starmi vicino.
Nel caso lascia perdere gli amici se d'ostacolo.
Tutto per assecondare il dispositivo vitale.
Il motore della violenza perpetrata da sempre per trasformare l'alterità in un sé definito.
A tutti i livelli biologici possibili.
La trasgressione come trasformazione d'altro in sé, in identità.
Per perdere tutto comunque.
Nonostante ci si arrovelli a barricarsi dietro dei segni, a un senso per giustificare tale logica spietata.


Il capitale
Provare a accumulare tutto l'amore possibile con doni distribuiti per una vita intera per ricevere tutto in una volta sola.
Ma non basta.
Come gettare gocce d'acqua al vento pensando di partorire un oceano.
Incolmabile il vuoto.
Inutile il dono.
Mai abbastanza per soddisfare un bisogno d'affetto e di comprensione al di là di qualsiasi logica economica.
E non c'è scambio che tenga.
Tanto vale farsene una ragione.


GAME OVER!


Bela Lugosi is not dead
Arrivano verso mezzanotte.
La zia è già morta da un po'!
Ha ancora la carnagione rosea. Il sangue non ha defluito del tutto.
Sono in due.
Il vestitore e l'accompagnatore.
Prima del rigor mortis la zia va cambiata.
In fretta e furia bisogna cercare dei vestiti nel guardaroba rigorosamente in bianco e nero.
Le collant non si trovano, pazienza...
Il vestitore è alto, quasi cieco, impacciato nel camminare.
Al primo gradino inciampa barcollando paurosamente.
Sarà per la statura di oltre un metro e ottanta, l'età avanzata, i capelli bianchi spettinati, la camicetta celestino chiaro un po' trasandata, sembra uno zombie richiamato dall'oltretomba per fare il lavoro sporco. Dare una presentabilità alla zia restituendola a una dimensione senza tempo. Come fosse sospesa da sempre nell'eternità. Come se tutto quanto vissuto di recente non fosse stato. Potesse le donerebbe anche un leggero sorriso beato.
Nonostante la mole, quando si presenta, lo fa con una vocina piccolina piccolina quasi fosse un bambino un po' troppo cresciuto.
Con sé ha portato la cassetta degli attrezzi identica a quella dei medici del passato. Una borsa nera in pelle con apertura a scatto centrale.
Non perde tempo.
Come un automa attivato sa bene cosa fare.
Nulla lo può distogliere dalla meta intravista. Il corpo della zia immobilizzato a letto.
Ci avviciniamo al capezzale per le presentazioni.
Saltando ogni cliché il nostro eroe è già lì a smontare deciso i fianchi alti del letto per agevolare il lavoro...
L'accompagnatore lo ferma...
Ei... aspetta un attimo.
Ma tanta la voglia di cominciare da voler bruciare tutte le tappe, gli ostacoli tra lui e lei.
Lo lasciamo da solo.
Vanno tolti gli inutili strumenti di sopravvivenza, il catetere, i due ani artificiali, la maschera per l'ossigeno.
Poi come un bebè incontinente dovrà fasciarla per evitare le perdite.
Solo allora la vestirà con quanto trovato lì a disposizione.
Dopo circa un'ora l'opera di trasformazione è terminata.
La zia è stata restituita integra a nuova vita.
Vengono gettati in una busta trasparente tutto quanto di residuale non più conforme al nuovo stato.
La zia come una farfalla ha lasciato la crisalide.
La metamorfosi è ora compiuta.
Nuova vita alla nuova carne!
Prima di andare il vestitore tira fuori dalla borsa nera un contenitore bianco di amuchina. Lo offre a tutti come lauto premio per il buon risultato. Manco fosse un infermiere d'ospedale o un consumato attore di C.S.I.


Per gli addetti ai lavori
Quando si sceglie si perde sempre qualcosa. Lo attesta pure l'etimologia della parola de-cidere ovvero tagliare, separare. Certo la speranza è di acquisire altro a partire da quanto rimane secondo la massima “nuovi vincoli, nuove possibilità. Se da un punto di vista simbolico non sembrano esserci particolari problemi, le cose cambiano quando si lavora sulla materia bruta. Magari affidandosi a un chirurgo. In questo caso la scelta si fa più complicata perché ne può andare di un rene, una gamba, un occhio... e non si torna indietro come nella logica simbolica. Conserviamo o tagliamo? Cosa vuole fare? In questi casi non è facile decidere. Arduo il discernimento. Alla fine a prevalere sono più delle reazioni istintive, emotive già belle e pronte. Dei dispositivi impliciti in atto chissà da quando, in grado di influenzare sotterraneamente il nostro fare. Come se qualcuno o qualcosa avesse già pensato per noi e in un qualche modo deciso a prescindere. Basta affidarsi alla cieca.
Per disattivare tali trigger il dubbio e la sospensione conseguenti possono essere l'unica via percorribile. A volte però non ce n'è il tempo. Quando si tratta di questioni di vita o di morte le cose si fanno più complicate.
Eppure tornando ai nostri bravi chirurghi il problema è a monte, nella famosa separazione bivalente tra res cogitans e res extensa di cartesiana memoria. In quel taglio riduzionistico qualcosa si perde. A volte può essere un bene, ma non sempre. Infatti l'assimilazione del corpo a macchina o a semplice sistema biologico votato all'autoconservazione a oltranza della vita può essere a un certo punto devastante, disumano. La sopravvivenza prima di tutto a qualunque costo l'imperativo categorico sottaciuto attivato. Così può capitare di dover rompere la macchina per vedere cosa c'è dentro senza poterla più riassemblare a puntino. Tanto se non piace quanto trovato è possibile accantonarlo in una casa di riposo, un letto d'ospedale per pazienti terminali. Però la fine non è così istantanea. L'aprire la macchina ha un costo, produce sofferenza. Ma tanto il dopo non è un problema loro ma di quanti sono attaccati a quella macchina. E chi s'è visti s'è visti. Tutto perché non si riesce a accettare l'idea della fine. Seguendo il dispositivo entropico innescato in ogni forma vivente o meno capace di ricondurci verso l'informe, l'indefinito, il caos, la disorganizzazione. A tutt'oggi non sembra possibile riuscire a superare tale limite apparente. L'assolutismo della realtà sembra essere al di sopra di tale velleità. Sebbene la sfida rimanga aperta. Ma per favore non giocatevela a caso come su delle cavie da laboratorio. Lasciatele morire in pace. Non costringetele a dare più di quanto possibile spremendole come dei limoni per fare uscire solo del succo vitale amaro. In fondo, alle macchine è concessa la grazia della rottamazione!


Apocalypse now redux
L'ultima guerra è finita.
Un momento di sospensione e di pace.
La frenesia di quei giorni così vicini è solo un lontano ricordo.
Si contano i morti.
Si leccano le ferite.
Vengono messi nel cassetto gli schemi comportamentali per affrontare il peggio.
Si è entrati in un nuovo regime meno drastico.
Non occorre più prendere decisioni immediate sul crinale tra la vita e la morte.
Abituati a vivere in prima linea di botto tocca ristrutturare una nuova esistenza.
Certo nulla sarà più come prima.
Però si prova a tornare a una banale normalità spensierata.
Di tutte le immagini belle e brutte rimane il ricordo vivido stemperato dal piacere di rivivere quei momenti folli nelle situazioni di vuoto o di stanchezza. Sapendo di essere riusciti a reggere l'urto anche questa volta.
Alla fine restano le sensazioni positive.
I morti sono già sepolti e non preoccupano più.
C'è solo da sbrigare le ultime pratiche per sancire la loro definitiva scomparsa. Anche se si ha la consapevolezza di aver partecipato a una delle tante battaglie in corso.
Non certo l'ultima.


Violeta
Solitamente la chiamavano Viola.
Lei aveva provato a controbattere.
Scusate, il mio nome è Violeta Elena.
Ma nessuno l'aveva ascoltata.
Anzi con il tempo anche i parenti più lontani la chiamavano così.
Beh... tutti la chiamano così, si giustificavano.
Anche quando ripresi non c'era nulla da fare. Quel nome si era impresso nella loro memoria come un marchio di fabbrica.
Alla fine aveva ceduto.
Per tutto il periodo accanto alla zia come badante si era mestamente rassegnata a tale evidenza.
Era la prima volta a trovarsi in quel ruolo e non era stato facile.
Inizialmente si era immaginata ben altri scenari.
Più di una occasione era stata sul punto di cedere, di abbandonare l'intera baracca al suo destino. Anche perché di problemi personali da risolvere ne aveva assai. Questioni fondamentali capaci di invischiare l'esistenza come dentro una gabbia asfissiante.
In fondo lo stare al fianco della zia era stato il pretesto per fermare una traiettoria vitale impazzita. Una fuga da un mondo ostile dove c'erano però tutti gli affetti di una vita.
Sebbene non ci fosse stata mai una reale comprensione aveva trovato negli amici della zia un'accoglienza basilare. Lasciando perdere la storpiatura del nome la sostenevano per come potevano. Che so portandole da mangiare o facendole la spesa. Anche perché senza di lei veniva a cadere l'intera impalcatura di accudimento della zia.
In tutto questo tempo era riuscita comunque a raccontare le sue vicissitudini al nipote della zia. L'unico ad ascoltarla veramente, a conoscere la sua storia. Almeno per quanto poteva.
Senza di lui sarebbe già caduta più di una volta. Ma anche nelle situazioni peggiori era riuscito pazientemente a contenere le sue crisi passeggere.
Alla fine si era fatta le ossa.
Per questo si mostrava riconoscente verso di lui al punto di voler ricambiare con quanto poteva. Un aiuto nell'amministrazione delle piccole cose domestiche del tutto lasciate all'incuria.
Ciò era stato facilitato anche dal breve soggiorno a casa sua dopo la morte della zia. Così aveva avuto la possibilità di entrare nel suo sancta sanctorum. Avrebbe voluto risistemarlo secondo delle regole igienico-sanitarie generalmente condivise. Ma senza successo a causa della reticenza di lui.
Quel caos all'apparenza disorganizzato corrispondeva al suo modo destrutturato di vivere. Nonostante la mancanza di ordine tutto si trovava a disposizione con facilità in vista delle occasionali esigenze minime di sopravvivenza.
Ma c'era dell'altro.
Sotto sotto sapeva bene cosa si nascondesse dietro quell'apparente altruismo disinteressato. Un modo per creare riconoscenza e riconoscimento al punto da legare sottilmente l'altro secondo la logica implicita del dono-controdono. E non ne voleva sapere.
Ci teneva alla sua libertà. Faceva di tutto per svincolarsi da tali dinamiche. Per questo la evitava quando poteva per non essere invischiato in quella trappola a ciel sereno difficilmente gestibile. Anche perché non avevano granché da dirsi né da condividere. I loro obiettivi erano del tutto non sovrapponibili. Il loro incontro frutto solo del caso. In condizioni normali difficilmente si sarebbero avvicinati l'uno a l'altra. Perciò era saggio rimanere ognuno per la propria strada. Tutto nel rispetto reciproco e nella trasparenza delle opinioni.


Memorie di uno schiavo
A far compagnia alla zia ora c'è anche Yzu.
È morto la fine di agosto.
Di cancro.
Come la zia.
Sembra non si sia voluto affidare alle cure del caso e abbia accettato di restituire tutto prima possibile per essere definitivamente libero. Lui che si chiamava per scelta Yzu schiavo.
La notizia non sorprende più di tanto.
Aveva la morte scritta in corpo, nel volto.
In fondo come tutti.
Però lui non lo nascondeva.
Per un po' ha provato a prendersene beffa, a sfidarla.
Come scagliarsi contro i mulini a vento.
Forse morire è stata una soluzione.
Non so se un bene.
Comunque una liberazione.
Dal mal di vivere.
Dal risentimento di esserci.
Dopo aver appreso la notizia, di notte sono andato a vedere la sua pagina internet. A caccia delle ultime tracce lasciate.
Al posto della solita foto c'erano le sacche di sangue con i tubi allacciati.
Una scena già vista.
Ironica per chi vestiva abitualmente i panni di un vampiro randagio assetato di alcol.
Durante l'estate, con la zia moribonda, l'ho incontrato più di una volta al solito baretto vicino al teatro comunale.
L'aspetto non era per niente buono.
Ma non troppo differente da tante altre volte reduce da sbronze, nottate insonni.
Probabilmente sapeva tutto ma non ha mai lasciato trapelare nulla. Come se non stesse succedendo niente di particolare.
In fondo si muore da sempre.
Con il contagocce.
Teneva tutto nel groppone in silenzio.
Con la pesantezza camuffata di un Atlante.
Senza fiatare.
Portando sulle spalle il proprio fardello.
Con dignità.
Sempre pronto alla battuta.
Fino alla fine.

P.s.
Nella realtà non è andata del tutto così.
Quanto appena scritto è l'elaborazione distorta di informazioni di terza o quarta mano poco affidabili. Paragonabili alla certezza di un sentito dire.
Ma farebbe differenza?
Cercare l'attendibilità dei fatti a tutti i costi non è sempre necessario. A volte può esserci un barlume di verità anche nelle trueslies. Basta saperla cercare attentamente tra le righe.
In ogni caso prendersi beffa della morte anche dopo la morte. Continuando a giocarsela, barando fino alla fine. Credo di non discostarmi troppo dal pensiero di Yzu. Anzi se l'avesse potuto leggere si sarebbe fatto una risata disumana. L'ennesima farsa del gran gioco della vita.
Come sia Yzu non c'è più. Come la zia.
Amen


Te l'avevo detto. o no? Sì. m' l'er' ditt'!
Sì, mi sono detto, dopo alcuni giorni di permanenza qui al Lido Sant'Orsola, a Bologna, che “il male che mi lavora dentro” è una forma tumorale - un tumore epiteliale, per l'esattezza, scopro in seguito... - del quale, ad ora, non si conosce la sede che ha prescelto. Ancora, dopo analisi, esami, endoscopie, tac, pet, biopsie, non c'è alcuna certezza riguardo all'organo presso il quale quest'ospite ingrato, inatteso e malvenuto, si è innestato.
Lo chiamerò Il Principale, dato che tale viene definito e, al momento, non rivela il suo nome o la sua figura.
Il Principale non si limita a squottare un organo del mio corpo. Non contento, manda in giro suoi galoppini a fare danni, più che scherzetti da monelli. Neoplasie Secondarie hanno formato concrezioni maligne presso il midollo, proprio dove vengono elaborate, definite e prodotte componenti essenziali del mio sangue - piastrine e globuli rossi - necessarie alla mia vita.
Queste concrezioni di cellule maligne le chiameremo Neosecondarie, come fossero formazioni paramilitari, visto che sembrano essere molto simili a gruppi organizzati di guastatori, teste di cuoio, degni delle migliori pseudodemocrazie del “mondo occidentale” - o delle “società dello spettacolo globalizzato”, se preferite.
Succede, quindi, che Il Principale si è ben nascosto - diciamo che è latitante -, mentre le Neosecondarie si adoperano a far sì che il mio sangue non sia adeguato a sopportare e a supportare un intervento mirato che combatta il 'male' in tutte le sue manifestazioni, o una cura efficace a debellarlo: tanto è debole il mio sangue, tanto è alto il rischio di emorragie interne e trombosi.
Tale è, allo stato attuale, la condizione che vive questo non-più-a-mia-disposizione corpo.
Corpo conteso da un malvenuto, maligno ospite, e da una istituzione totale che ne definisce - o quantomeno tenta di - tempi, spazi, farmacopee, indagini invasive e teoremi e ipotesi il più delle volte fallaci.
Ma ci sono io, e quel che mi dico è che non esiste rimedio al “male” se non affrontarlo e combatterlo in prima persona e con la cocciuta determinazione di un mulo lucano.
T' l'er' ditt'. o no? Sì, me l'avevi detto.

Yzu, 5 agosto 2011


Restless
È il titolo dell'ultimo film di Gus van Sant. Parla di giovani violentati dalla vita, di elaborazioni del lutto di esserci ancora, della scoperta di non avere un proprio ma di essere ostaggi dell'altro. Un sé anarchico dato in prestito per un po' a una coscienza ignara. Giusto il tempo di capire come stanno le cose e avere modo di prepararsi alla vita imparando a restituirla senza scarti. Lo si può fare con tragica grazia oppure ribellandosi demiurgicamente. Provando a fare finta di condurre il gioco, a farsi violenza da soli per nascondere la violenza originaria. Alla fine si tratta solo di una identificazione con l'altro carnefice prendendone all'occorrenza le veci. Al massimo si può diversificare la storia. Però si è sempre all'interno dello stesso gioco al massacro sia auto o etero indotto.
I giovani di Gus van Sant hanno scelto per quanto possibile la prima via. Inutile il risentimento, il rimbalzo della colpa, la rivendicazione, la rivalsa. Andare oltre non è semplice. Dopo tante battaglie, rimane solo l'accudimento reciproco in vista del proprio o altrui funerale. Con una grazia infinita, una dolcezza d'animo in grado di farti morire in piedi nonostante i colpi della vita. Tutto con leggerezza, distacco partecipe. Consapevoli di aver già perduto ogni cosa ancora prima di nascere. Espropriati da sé stessi da sempre. Il massimo dell'alienazione però con coscienza. Il sé come altro. Il rapporto costante con un nemico con il quale bisogna fare comunque i conti.
A chi interessano oggi tali tematiche?
Tra qualche giorno sarà Halloween.
Si parteciperà alla festa nonostante tutto, come nel film. Però nulla a che spartire con lo spirito orgiastico di chi pensa di prendere parte a un banchetto. Nella vita non si tratta di prendere, quanto piuttosto di rendere. Al limite si può partecipare allo spettacolo del proprio corpo fatto a pezzi lentamente, trasformato al punto di essere irriconoscibile. L'alieno sublime inguardabile allo specchio. Doppio perturbante per quanto familiare e sconosciuto allo stesso tempo.
Insomma un film per tutti, alla fine per nessuno.
Una garanzia di qualità.
Totalmente estraneo alle logiche dello spettacolo.
Film antieconomico per eccellenza, per questo scartato a prescindere.
Una sola settimana di programmazione all'Odeon.
Poi il sacrificio sull'altare del botteghino per risorgere due settimane dopo all'Antoniano. Un cinema parrocchiale incluso nell'antistante convento dei frati. Un luogo un programma. Cinema della spoliazione per l'appunto, accolto da chi ha fatto della povertà il simbolo assoluto della vita. L'unica concessione a tale rigore è la festa post mortem. Il banchetto conclusivo per chi rimane a portare in silenzio la memoria intima dei bei momenti vissuti insieme.
In sala siamo in sei.
Appena seduto trovo al mio fianco una coppia di amici. A una spanna, senza volerlo. Ancora una volta l'imprevisto piacevole come la ciliegina sulla torta.
A metà film si accende una luce a rompere l'atmosfera.
Non si sa perché.
Rimarrà a farci compagnia fino alla fine.
Ma va bene così.
Questo è un cinema del disincanto e della giusta distanza.
Anche il troppo buio può accecare!
Meglio stare a contatto con la realtà circostante per potersi dire “è solo un film”.
Senza esaltazioni particolari.
Chissà... forse era previsto dal copione...
Usciti ci troviamo fuori a parlare tutti e sei.
Come amici di vecchia data.
Fuori dal tempo, dallo spazio.
Si sta insieme per un po'.
Poi ci si saluta fraternamente. Non prima di essersi dati appuntamento al Galliera, un altro cinema parrocchiale. Per vedere l'ennesimo film scartato dalla “vita”.


Il teatro della crudeltà
Antonin Artaud è morto di cancro al retto come la zia.
Forse proprio così ha compiuto la sua opera senza opera.
Al di là di ogni contaminazione metaforica.
Per non sparpagliare fuori altri scarti.
Tappandosi letteralmente il buco del culo.
Per smettere di seminare intorno.
Per non generare più.
Opera implosa per eccellenza.
Disimpegno totale verso le proprie funzioni vitali.
Kundalini turgida di feci dure impossibilitate a uscire se non ripercorrendo il tragitto contrario verso l'alto. Al punto di innalzarti fino alla morte.
Un sacrificio perfetto!


Deserto tartaro
Muoversi da naviganti solitari è sempre più difficile. Specie poi in quei luoghi di periferia dove l'ospite è l'eccezione. Comunque si tratta sempre di problemi di economia, di lavoro, di produzione di valore, di beni, di condivisione.
Una logica ferrea dello scambio, di cosa sia possibile permutare, mettere in comune secondo regole, tempi prestabiliti si confronta, scontra contro una volontà di non essere inquadrato, poi inglobato all'interno di gabbie relazionali ordinate secondo la pratica del dono controdono obbligatori. Mai un fare qualcosa a perdere, per agire senza calcolo all'interno di rapporti poco commensurabili eppure possibili. A volte basterebbe dare la possibilità di essere al di là di un senso apparente, rassicurante.
Forse era solo il giorno storto.
Quando tutto precipita in fretta.
E non puoi farci nulla se non vedere ogni singolo piano del tuo mondo implodere su se stesso.
Velocemente.
A niente vale resistere.
Tutto frana inesorabilmente.
I tuoi ragionamenti non mi piacciono.
Se non ci fossi io a sostenere la baracca...
Tu prendi solo...
Il succo del discorso.
Ma poi ce l'hai la tessera per entrare?
No!
E bravo!
Neanche ci rispetti.
Non rispondo.
Esco.
Troppi i paletti i se e i ma frapposti.
Faccio terra bruciata.
L'inverno preme.
Anche questo porto andato.
Come sopravvivere qui in provincia.
Cosa inventarsi ancora.
Bandito per l'ennesima volta.
A torto o a ragione.
Chi se ne frega.
Amen.
Adieu.
Intanto dopo l'esorcismo uno spirito ramingo vaga nudo.
Fuori dal corpo sociale.
In attesa di rivestirsi ancora.
Al momento propizio.
Quando un nuovo ambiente meno ostile sarà pronto ad accoglierlo.
Almeno per un po'.
Aspettando primavera.

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